Scrivo queste righe sul caso Bibbiano da laico, ossia da non esperto in materia, ma come uno che per professione tende a riflettere sui fenomeni della nostra cultura contemporanea, sui suoi mutamenti profondi e sulle aporie sovente nascoste dietro la retorica del politicamente corretto. Retorica che rischia di neutralizzare, se non addirittura rendere impossibile, qualsiasi forma di dibattito pubblico sui costumi odierni. A questo si aggiunge qualche piccola esperienza di volontariato sociale con minori in situazione di disagio sociale e in condizioni di disabilità fatta negli anni della mia giovinezza a Milano e nell’hinterland di questa grande città.
Milano anni ’80, non solo una città da bere…
Niente di tecnico, quindi, ma semplici osservazioni di un cittadino interessato. Se la memoria non mi tradisce, a Milano nella seconda metà degli anni ’80 si stava producendo un passaggio di rilievo delle politiche sociali verso i minori «a rischio», portato avanti da una significativa collaborazioni fra gli uffici del Comune competenti in materia e il Tribunale dei Minori. Detta in estrema sintesi, si trattava di passare da una presa in carico pubblica dei minori e delle loro vite nel momento in cui erano oramai manifesti comportamenti di «devianza», situazioni conclamate di violenze subite, a una gestione che potremmo definire di prevenzione. Ossia interventi che cercavano di valutare situazioni familiari e sociali ad alto rischio, così da poter evitare, nei limiti del possibile, che esse andassero a incidere indelebilmente il vissuto dei minori esposti a tali rischi.
Insomma, l’intervento sociale iniziava a non venire più pensato nell’ottica di rimediare a un «danno» presente e del presente, ma guardava con decisione al futuro, alla vita adulta dei minori. Questo, certo, in un loro interesse che però aveva e ha grosse ricadute per la nostra socialità comune. Si trattava, dunque, di un investimento sociale a lungo termine dal quale il complesso della vita cittadina e delle sue periferie avrebbe potuto trarre indubbio vantaggio – soprattutto nei termini di pace sociale, di buoni stili di convivenza, garantendo anche a soggetti potenzialmente a rischio di comportamenti «devianti», anti-sociali, violenti, un percorso che potesse offrire loro la possibilità di una piena appartenenza alla città.
Gli affetti e la cittadinanza
A mio avviso, si trattava di pratiche volte a garantire che la cittadinanza non rimanesse un mero dato anagrafico, ma diventasse un vero e proprio percorso di vita – soprattutto per coloro che erano a rischio di rimanerne esclusi sul piano esistenziale. Ora questo passaggio dal «presente» di una condizione conclamata al «futuro» di una vita tutta da plasmare comporta necessariamente degli elementi di predizione; che non sono né del tutto aleatori, ma neanche hanno il carattere di evidenze matematiche inconfutabili.
Insomma, comportano sempre la possibilità di errore, di valutazioni che devono essere continuamente verificate ed eventualmente modificate. A questo corrisponde la creazione di tutta una serie di pratiche di controllo delle procedure in atto, di cui i servizi sociali e le varie associazioni che operano nel settore si sono dotate. Credo che, soprattutto di fronte alla crisi indotta da quanto avvenuto a Bibbiano, dovuta sia agli errori che lì sono stati compiuti sia, forse ancor di più, alla immediata strumentalizzazione politica e mediatica del caso, sia importante riaffermare la serietà professionale, la competenza, e l’investimento di risorse umane che caratterizza tutto il settore sociale del nostro paese.
Come va riaffermata la passione educativa, e il rilievo complessivo che essa ha per tutta la nostra società, delle famiglie affidatarie che sono il vero luogo di una restituzione alla piena cittadinanza civile del minori presi da loro in carico – con generosità e affetto. Perché senza affetti, senza una cura appassionata a livello di relazioni strette e di cammini educativi, la cittadinanza, per tutti noi, rimane un semplice dato anagrafico – oramai ridotto a mero bacino emotivo da cui attingere un consenso elettorale continuamente protratto nel tempo.
Il partito e il giudizio
Questi rimangono, a mio avviso, i punti fermi del tutto omessi dal martellio mediatico degli ultimi tempi, ritenuti poi sostanzialmente irrilevanti dalla querelle politica a cui abbiamo dovuto assistere sostanzialmente inermi. Lasciando che la tendenza partitica si sostituisse al nostro diritto e dovere di cittadini di dare forma a un giudizio consapevole e responsabile su quanto avvenuto.
Il punto debole della questione, a mio avviso, rimane la configurazione ideologica che sta accompagnando i grandi processi di trasformazione dei nuclei portanti del vivere-insieme delle nostre società contemporanee. Tutti i grandi temi dell’umano, dal nascere al morire, dai legami familiari a quelli affettivi, dalla configurazione dell’identità personale alla forme dell’educare, sono oggi sottoposti a un’indebita e massiva ideologizzazione – a prescindere da quale sia il colore o la tendenza che viene affermata.
Passione civile per l’umano
L’ideologia dell’umano che ne consegue viene, poi, immediatamente trasformata in consenso elettorale e utilizzata unicamente in questo senso dalle varie rappresentanze politiche (se ancora possiamo chiamarle così) del nostro paese. Ci troviamo quindi in una preoccupante situazione di deficit pubblico di una degna passione civile per l’umano che tutti noi condividiamo. Con le sue debolezze e le sue fragilità, con le sue possibilità e le sue aspirazioni, col suo desiderio di vita buona e di relazioni che non si consumano.
Ma vi è un’altra tendenza del nostro tempo che, mi sembra, viene a mala pena percepita. La giusta preoccupazione espressa dal Tribunale dei Minori di Bologna per le conseguenze che il «caso Bibbiano» sta già avendo sulla disponibilità della famiglie affidatarie è a mio avviso indice significativo di questo altro risvolto che non viene ancora colto in tutta la sua portata.
L’indicazione da parte dei giudici della necessità che il legislatore metta mano a regole più precise e chiare che determinino i compiti e le responsabilità delle famiglie affidatarie, e questo a loro tutela, è comprensibile e pienamente in linea con le loro mansioni.
La giuridizzazione dei costumi
Mi chiedo, però, se in questo momento questa deve rimanere la sola voce autorevole chiamata in causa, ossia se la norma positiva possa esaurire in sé tutto il processo educativo che introduce i minori a una cittadinanza effettiva ed esistenziale.
Voglio chiarire subito: non credo che i giudici minorili avochino a sé questa assolutezza e totalità; è però vero che rischiano fortemente di trovarsi soli, insieme alle associazioni di settore, a dover gestire una matassa che per natura è intricata e complessa. Ossia, non è riconducibile unicamente alle forme del diritto positivo; ma ha dimensioni etiche, civili, affettive, che chiamano in causa l’intero corpo sociale del paese.
Temo che gran parte della cittadinanza veda in una sempre più minuziosa regolamentazione positiva degli interventi sociali la soluzione tout court per garantirne la bontà educativa e civile. Il grande mutamento di paradigma che si annida in questo consenso, che finisce per lasciare il diritto in una splendida solitudine sociale, mettendo in carico a esso il compito di risolvere tutti i problemi del nostro vivere-insieme, comporta una snaturalizzazione del diritto stesso come uno degli elementi portanti della nostra socialità umana.
Perché, alla fin fine, quello che così sta producendo è sostanzialmente una giuridizzazione dei costumi che sono propri alla nostra società civile. Ossia, stiamo lentamente prendendo congedo dalla dimensione originariamente etica del nostro vivere-insieme, con tutto quello che questo comporta.