Siamo reduci da un fine settimana politicamente intenso. Segnato da tre appuntamenti: la stretta finale sulla manovra di bilancio; la manifestazione di massa della Lega cui hanno partecipato i leader dei due partiti alleati, FI e Fratelli d’Italia; la decima edizione della Leopolda che ha tenuto a battesimo Italia viva, la nuova formazione di Matteo Renzi. Un cenno a ciascuno di essi.
La manovra
Tutti gli osservatori hanno giudicato la manovra economica un po’ timida e sbiadita. Ma, in certo modo, obbligata. A motivo dell’oggettiva indisponibilità di risorse. Basti notare che oltre due terzi di essa erano già ipotecati dalla priorità, da tutti condivisa, del disinnesco delle cosiddette clausole di salvaguardia, onde scongiurare l’aumento dell’Iva, che avrebbe pesanti effetti depressivi sui consumi. L’opposto del sostegno alla domanda del quale vi sarebbe bisogno. Dunque, di necessità, non una manovra vigorosamente espansiva. Piuttosto di semplice, responsabile manutenzione.
Sulle poche misure residue – quota cento, taglio delle imposte sul lavoro, lotta all’evasione, fondo famiglia, investimenti in green economy… – si è messa in moto la fiera dei distinguo da parte di due forze della maggioranza quadripartita: 5 stelle e Italia viva, Di Maio e Renzi. Intendiamoci: trattasi di questioni serie se se ne potesse discutere responsabilmente e con senso della misura (ripeto: consapevoli degli stretti vincoli di bilancio sui quali vigila la Commissione UE). Ma è di tutta evidenza l’alto indice di strumentalità politica sottesa a quei distinguo. Un gioco di posizionamenti e una conseguente, artificiosa conflittualità che sembra rinnovellare quella che ha contrassegnato il precedente governo gialloverde. Chiare le ragioni appunto politiche e propagandistiche.
Italia viva
Per il neonato partito renziano (al momento, tutto e solo generato da transumanze parlamentari e contraddittoriamente varato a valle del patrocinio al Conte 2 dato proprio da Renzi) trattasi della programmatica ricerca di visibilità, negli auspici foriera di propiziare un consenso elettorale.
Cruciale, sotto questo profilo, la propria auto-rappresentazione come partito no tax, oltre che l’ostilità a quota cento. La prima, che ammicca demagogicamente al vasto campo di chi mal sopporta l’obbligo fiscale; la seconda, non priva di buoni argomenti (quota cento fu cavallo di battaglia leghista effettivamente costosissimo e discutibile), ma manifestamente irricevibile per i pentastellati che concorsero a introdurla.
Distinguo, comunque, che rispondono a una precisa strategia mirata a qualificare identità e missione della neonata Italia viva, su cui torneremo più avanti.
Per il M5s, il nervosismo di Di Maio si spiega così: è il riflesso condizionato di chi, memore del prezzo pagato all’attivismo di Salvini nel precedente governo, un po’ maldestramente cerca di imitarlo; ancora, è l’inquietudine di una leadership che si fa assertiva esattamente perché fragile e messa in discussione nei gruppi parlamentari e non solo (lo stesso Grillo ha fatto trasparire le sue riserve su di essa, di fatto imponendogli la svolta di governo che Di Maio ha subìto); infine, è una malcelata competizione con il premier Conte il cui profilo politico e il connesso apprezzamento nell’opinione pubblica sono lievitati. Insieme a un suo rapporto privilegiato con gli alleati-competitor del Pd. Del resto, le linee portanti della manovra, salvo dettagli, erano già stata deliberate in Consiglio dei ministri e trasmesse agli organi della Ue, con i quali si era già avviato un positivo negoziato. Dunque, appunto, una discussione tutta politica e persino pretestuosa.
La Leopolda
Secondo evento: la Leopolda. Di grande impatto mediatico. Con il varo del nuovo simbolo. Chiara la prospettiva strategica: come si è scritto, quella di un’Opa ostile su FI e Pd. Nella convinzione che, da un lato, l’egemonia indiscussa di Salvini sospinga a destra quello che fu il centrodestra a guida Berlusconi; dall’altro un’alleanza strategica Pd-M5s decisamente spostata a sinistra dischiuda uno spazio al centro a una offerta politica appetibile per un elettorato moderato disperso con il tramonto della parabola berlusconiana.
Un mondo, quello che fu del Cavaliere, cui Renzi ha indirizzato molteplici segnali: solidarizzando contro l’accanimento dei magistrati che si occupano dei suoi processi, accreditandolo come leader liberale, democratico ed europeista, asserendo che FI sia stata interprete di una innovazione politica a fronte di un Pd tuttora incline a vecchie e consunte liturgie politiche. Sino a espressioni francamente ineleganti come quelle riservate al Pd dalle sue due più strette collaboratrici, Boschi e Bellanova: il partito delle tasse, il partito nel quale si combattono “bande armate”. Francamente troppo per chi vi militava sino a ieri, per chi ne è stato leader incontrastato per quattro anni, all’indirizzo di un attuale partner di governo.
Se – la cosa è tutt’altro che certa, specie con questi chiari di luna, ma è l’obiettivo dichiarato di Zingaretti – l’attuale governo dovesse rappresentare il laboratorio politico di un’alleanza strategica Pd-M5s che Renzi rifiuta e contrasta, Italia viva è destinata a occupare lo spazio politico che fu di FI, a configurarsi come una Forza Italia 2. Di nuovo un po’ troppo per chi è stato leader e premier del centrosinistra e ha condotto il Pd – lui, non Veltroni, non Bersani – nella famiglia dei socialisti europei che oggi dichiara di voler prosciugare.
La Lega
Infine la manifestazione unitaria della Lega in Piazza San Giovanni. Manifestazione largamente partecipata, che ha sancito ancora una volta la leadership di Salvini. Il quale, esagerando, ha potuto raccontarla come l’incipit di una “nuova coalizione degli italiani”, altra e più estesa del vecchio centrodestra dall’immagine logora.
Versione timidamente e pateticamente confutata da un Berlusconi che si ostina a rappresentarsi come centrale e comunque indispensabile. Versione che infastidisce la Meloni vogliosa di divincolarsi da un ruolo meramente ancillare, quasi una sottomarca della destra leghista.
Versione, se si vuole, propagandistica e tuttavia atta ad avvertire l’improvvisata, litigiosa maggioranza parlamentare che essa deve fare i conti con un avversario tuttora tostissimo, che vanta un largo consenso nel paese.
E che chi, anche con buoni argomenti (in realtà, uno solo: scongiurare elezioni che avrebbero consegnato il paese a Salvini), ha messo su un governo sulla spinta di uno stato di necessità, non reggerà a lungo su basi tanto fragili e incerte. Dividendosi ogni giorno. Sorprende e inquieta che non lo si capisca. Ci soccorre (anzi non ci soccorre affatto, ma ci allarma) il motto latino secondo il quale “Giove acceca chi vuol perdere”, inseguendo angusti calcoli di potere personale e di partito.