L’Amazzonia e la dottrina ecclesiale

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Il documento che ha chiuso l’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi dedicata all’Amazzonia ha suscitato un diffuso interesse intorno allo sviluppo della dottrina e della disciplina ecclesiale. Rispetto alle posizioni più oltranziste, di coloro che non possono concepire alcuna variazione della disciplina e della dottrina ecclesiale, senza gridare subito allo scandalo e al tradimento, è giusto sottolineare, anche con forza, che la tradizione prevede, strutturalmente, un aggiornamento delle norme disciplinari e anche delle formulazioni dottrinali. La continuità della tradizione esige, in modo strutturale, un aggiornamento. La continuità include e reclama sempre alcune necessarie discontinuità.

Anche le testate giornalistiche ufficiali, come è il caso di VaticanNews, possono svolgere un ruolo prezioso in questa opera di informazione. In tal senso si è mosso oggi anche l’articolo di S. Centofanti, dal titolo Lo sviluppo della dottrina è un popolo che cammina unito . Fa parte anche delle strategie comunicative più affermate tentare di citare testi dei “predecessori di Francesco” per avvalorare le scelte dell’attuale pontefice. Anche questo, ripeto, è possibile, talora opportuno e talvolta anche necessario. Dipende solo da quali sono le fonti che si scelgono. In questo caso, leggendo il testo dell’articolo, mi sono imbattuto in una citazione tanto curiosa quanto male assortita. Riporto qui di seguito le parole dell’articolo, che si possono leggere proprio nelle sue righe iniziali:

Significative, a questo riguardo, le parole di Benedetto XVI nella Lettera scritta nel 2009 sulla vicenda della remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre, fondatore della Fraternità sacerdotale San Pio X: «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive».

Se si vuole sostenere il cammino di un Sinodo e l’opera di aggiornamento di un papa, non si può citare un testo così condizionato da una difficile e paradossale mediazione con coloro che proprio negano ogni possibile cambiamento. In quel testo, che qui viene citato con troppa disinvoltura, papa Benedetto XVI tentava di assicurare una via di uscita, e sperava in una riconciliazione, con coloro che sostenevano apertamente la negazione del Concilio Vaticano II, come appunto i 4 vescovi lefebvriani cui aveva rimesso la scomunica. Ma, mentre negava la possibilità di congelare la attività magisteriale al 1962, insieme contribuiva a tale congelamento, affermando la contemporanea vigenza di due riti tra loro non armonizzabili.

Lo sviluppo della dottrina, al quale si ispira la elaborazione sinodale e l’interpretazione papale di oggi non è in nessun modo confrontabile con questa ardita mediazione diplomatica voluta da papa Benedetto nei confronti dei vescovi scismatici e che aveva sollevato tante giuste perplessità nella comunione episcopale, già presaga allora dell’inefficacia di quel gesto. In effetti, non si può garantire la tradizione della Chiesa dicendo, contemporaneamente, due cose opposte: se si dice che non si può congelare il magistero, ma poi lo stesso magistero apre il congelatore e pretende di conservare, a -20 gradi, il rito che il Concilio ha chiesto esplicitamente di riformare, non si ottiene altro risultato se non quello di paralizzare la tradizione liturgica e di esautorare il magistero postconciliare.

Molti altri testi di Benedetto XVI avrebbero potuto essere citati per giustificare, ragionevolmente e cristianamente, l’evoluzione della disciplina e della dottrina ecclesiale. In questo senso si è mosso a ragione anche l’autore dell’articolo, che dopo questo esordio infelice, ha provveduto a citare tanti altri esempi, molto più convincenti, traendoli dalla lunga storia della dottrina cristiana. Sembra invece piuttosto curioso che all’inizio – con una ripresa che compare anche alla fine – si sia voluto citare proprio un testo che, già per il suo tenore letterale, introduce di fatto una immobilità formale nella tradizione. E se per una lettera scritta a giustificazione della remissione di 4 scomuniche quelle parole potevano anche risultare parzialmente ammissibili, non vedo proprio come si possano utilizzare quelle stesse parole per commentare l’attuale cammino di apertura a nuovi orizzonti dell’evangelizzazione, del servizio e della celebrazione ecclesiale.

La questione è oggi totalmente diversa. Qui non ci si deve vergognare per la riforma compiuta, come se fosse quasi da emarginare, bensì per quella mancata, da recuperare con urgenza. Il magistero deve tornare autorevole non solo a parole, ma con i fatti. E soprattutto con la coerenza tra le prime e i secondi. Per queste grandi differenze concordo in pieno con l’idea di proporre riflessioni sullo sviluppo della dottrina e della disciplina ecclesiale, ma dissento con decisione sulla contraddittorietà della fonte che apre e chiude il discorso. Perché abbiamo bisogno di sviluppi veri, non di sviluppi apparenti.

Pubblicato il 28 ottobre 2019 nel blog: Come se non.

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