In una nostra precedente nota, abbiamo osservato come il Sinodo Permanente della Chiesa di Grecia, nell’accettare il diritto del Patriarca Ecumenico di conferire l’autocefalia a una Chiesa locale, abbia riconosciuto de iure e di fatto l’indipendenza della Chiesa ortodossa di Ucraina. Infatti, l’arcivescovo di Atene Ieronymos ha sottoposto la questione alla plenaria dei vescovi della Chiesa greca non per ottenere da loro un’ulteriore convalida, ma per investire – come scrivevamo – tale riconoscimento di un prestigio “più solenne” con la sigla del supremo organo di governo della Chiesa elladica.
Infatti, il Santo Sinodo, nella riunione straordinaria del 12 ottobre, ha discusso ampiamente il tema, ha recepito le decisioni del Sinodo Permanente e ha autorizzato l’arcivescovo di procedere con quanto previsto dalla prassi canonica e cioè: di commemorare liturgicamente l’arcivescovo di Kiev e di inviargli delle lettere formali. Una settimana dopo, il 19 ottobre, lo stesso Ieronymos e il Patriarca Ecumenico Bartolomeo hanno concelebrato a Tessalonica, nella chiesa paleocristiana di Acheiropoietos, dove ebbero occasione di ricordare ritualmente i nomi di tutti primati ortodossi canonici, tra cui quello di Epifanio di Kiev.
La reazione del Patriarcato di Mosca
Immediata è stata la reazione del Patriarcato moscovita: il 17 ottobre, ossia appena 5 giorni dopo il Sinodo ateniese, il Concilio dei vescovi del Patriarcato russo, presieduto dallo stesso Patriarca Kirill, ha pubblicato un lungo comunicato con il quale accusava i gerarchi greci che hanno riconosciuto «lo scisma ucraino» di aver ceduto alle pressioni del Patriarca Ecumenico e dei poteri politici internazionali, di non aver considerato la dipendenza canonica di Ucraina da Mosca per 300 anni e di non aver rispettato i lunghi rapporti storici e spirituali tra il popolo greco e quello russo.
Il comunicato, inoltre, ha fatto presente che vi sono stati vescovi all’interno del Sinodo greco contrari all’autocefalia ucraina, che l’assemblea non ha voluto procedere ad una votazione intorno alla questione ucraina e che si procederà con l’interruzione della comunione eucaristica con i vescovi che sono entrati (o entreranno) in comunione con «i rappresentanti dei gruppi scismatici ucraini».
Infine, il Concilio russo ha avvertito che non darà più la sua benedizione per l’organizzazione di pellegrinaggi alle diocesi dei vescovi che hanno dato il loro sostegno alla Chiesa ucraina.
Il Patriarcato russo ha usato un linguaggio alquanto bellico e dai toni aspri, segno forse di un’irritazione ormai difficile da nascondere. Al di là, però, di approcci emotivi, la reazione del Patriarca Kirill e del suo Concilio alla posizione della Chiesa greca suscita, a nostro parere, alcune perplessità: viene anzitutto da chiedersi il motivo per il quale la Chiesa russa ha diviso i vescovi greci tra “oppositori” e “sostenitori” dell’autocefalia ucraina.
In altre parole, è possibile percepire qui il tentativo di creare virtualmente l’immagine di una Chiesa greca divisa, turbata dalla frazione fra una fragile “maggioranza” pro-ucraina e una solida “minoranza” anti-ucraina. Tale tentativo di interpretare l’intenzione di un organo sinodale di un’altra Chiesa, oltre a non essere caratterizzante dello spirito di amore fra Chiese “sorelle”, omette un criterio fondante dell’ecclesiologia di autocefalia: che l’episcopato di una Chiesa locale si esprime non per mezzo di una somma numerica di vescovi, ma per le vie stabilite nella legislazione e nella prassi canonica, vale a dire mediante un sinodo presieduto da un arcivescovo.
La Chiesa di Grecia, quindi, ha agito in base alla propria libertà amministrativa, nonché applicando la sua facoltà di entrare in comunione con le Chiese nate mediante atti formali (Tomi) del Patriarcato Ecumenico, la “madre-Chiesa” della Chiesa greca e delle altre Chiese autocefale canonicamente riconosciute.
Rompere la comunione?
Vi è forse anche l’obiettivom, più che di interrompere la comunione eucaristica con la Chiesa di Grecia, di rompere l’unità interna della gerarchia greca? Solo così si potrebbe comprendere la decisione del Patriarcato di Mosca di escludere dalle sue sanzioni i vescovi greci “ribelli” che si sono allineati con la posizione russa (sebbene non tutte le loro argomentazioni siano da sommare sotto la sigla di… filorussismo).
E, in più: perché il Patriarca Kirill ha acconsentito al suo Sinodo di utilizzare anche in questo caso il segno supremo che sigla l’unità tra le Chiese, vale a dire la comunione eucaristica, per una diatriba puramente amministrativa e per di più in una maniera così apertamente “punitiva”?
E, infine: in quale misura è legittima l’accusa di «cedimento a pressioni politiche» e quella sulla presunta «non libera espressione» di tutti i membri della gerarchia greca (quasi come fosse avvenuto un vero golpe ecclesiastico), essendo stato l’argomento sull’Ucraina sottoposto prima allo studio di due Commissioni Sinodali e poi discusso al Sinodo Permanente e alla plenaria dei vescovi greci?
Fin dall’inizio della questione ucraina abbiamo scelto di intraprendere un approccio sotto il trittico “autocefalia-sinodalità-primato”, evidenziando come una sana autocefalia debba svincolarsi da configurazioni politiche e nazionali; come la sinodalità sia la massima e più autorevole espressione dell’unità di una chiesa a livello locale, regionale e universale nonché della comunione tra le Chiese; e come, infine, il primato sia una condizione indispensabile del governo sinodale a tutti i tre livelli sopra menzionati.
Un’autentica ecclesiologia dell’autocefalia, quindi, non può prescindere né dal criterio della libertà di una comunità locale a esprimersi come un solo corpo, saldamente unito e guidato da un vescovo, neppure da quello del dovere di compiere la comunione inter-ecclesiale. Altrimenti, senza primo o sinodo, l’autocefalia rimane un mezzo di isolamento autoreferenziale e di frantumazione, di rinuncia dell’unità con gli altri, di trasformazione della comunione – persino quella eucaristica – in un’arma che ferisce l’unità della Chiesa a vantaggio di guadagni effimeri.
È proprio dal corretto esercizio dell’autocefalia che si può liberare da quelle dipendenze che restringono lo spazio di comunione tra i cristiani e lasciano subentrare fattori estranei, anzi contrari, alla comune vocazione di unità, che associa tutti i fattori di questo dramma ucraino.