Vorrei descrivere l’esperienza che, con alcuni rappresentanti delle Caritas diocesane della Lombardia, ho realizzato in Bosnia (diocesi di Banja Luka) come un viaggio sui confini.
Confine, per definizione, è «zona di separazione, di passaggio, di attraversamento». Il confine separa, divide, ma nello stesso tempo, con la sua porosità, consente il passaggio, lo scambio, l’incontro oppure lo scontro. Il confine è pure una questione di identità, di cura di sé, sia come persona, sia come popolo: è la condizione della conservazione di un unicum, a cui, per il bene nostro e altrui, non possiamo rinunciare.
Tutti noi mettiamo per vivere e, a volte, per sopravvivere, confini tra noi e gli altri, tra noi e il mondo che ci pervade in tanti modi: è vitale conservare qualche confine, per non lasciarci disperdere nell’indeterminazione. Ma poter andare al di là di una guerra, al di là di paesi in cui la violazione dei diritti umani è prassi scontata, al di là di manifestazioni dell’inferno sulla terra, diventa una necessità attraversare, anche fisicamente, tali confini: semplicemente per vivere e per sopravvivere, per darsi una meta, un approdo.
Il confine, il gioco, la meta
«Oggi proviamo il game», ossia il «gioco» del passaggio dei confini – così ci dice un giovane ventenne ragazzo indiano, con un gruppetto di connazionali suoi coetanei, in un primo pomeriggio di ottobre. Fa ancora caldo, le temperature sono al di sopra della norma, ci si può muovere con abbigliamento estivo; anche questo incoraggia il game e fa sentire la sorte meno dura.
Al gruppetto dei giovani indiani si aggiunge un altro piccolo nucleo di afgani. Sono colpito da una cesta dentro la quale è deposta una bambina, neonata. Partono: direzione montagne, la loro notte sarà sicuramente nel bosco, dove sempre più persone stanno bivaccando, per tentare e ritentare il gioco, che non è affatto un gioco: quello di attraversare i monti per arrivare in Croazia e da qui entrare in altri paesi europei, quali Italia, Austria, Germania.
Ciascuno ha la sua meta, il suo sogno; ciascuno ha il suo fardello di malanni, di acciacchi, di traumi. Molti sguardi sono persi nel vuoto, dopo mesi di cammino a piedi, dal Pakistan o dall’ Afganistan, dopo infinite file per accedere ai campi profughi, dopo la scabbia, dopo tante notti passate all’addiaccio, dopo migliaia di baci alle foto degli affetti di casa e di preghiere elevate a un Dio che può rendere questo gioco finalmente vincente, oltre il confine.
Attraversati dai volti
Anche noi abbiamo attraversato vari confini prima di arrivare a questa destinazione. Ma, al termine del viaggio, ci siamo sentiti attraversati, nella pelle, da questi incontri, dai volti, dalle storie. Non siamo stati troppo lontani dal nostro paese, eppure quello che abbiamo visto con i nostri occhi, sui confini della «nostra» Europa, ci ha lasciato senza parole.
La Bosnia Erzegovina, è un paese impoverito: dopo la guerra, l’economia stenta ed è fortissima l’emigrazione giovanile in cerca di speranza altrove. Bihac ha circa 30.000 abitanti ed è al confine con la Croazia. È una bellissima cittadina sul fiume Una che la rende vivace e meditativa allo stesso tempo; sole e colori dell’autunno la rendono davvero dorata. Porta ancora su alcuni edifici i segni delle mitragliatrici della guerra dei Balcani.
Le scorie della guerra
Cristiani cattolici, ortodossi e musulmani vivono ora pacificamente insieme, senza ostilità; anche se, ad ascoltare qualche giovane del posto, le ferite della guerra ancora riemergono, perché non sono mai state completamente guarite. La violenza qui è stata troppa e, per ciò, ci dicono: «qui abbiamo fame e sete in 3 lingue diverse». Da tre anni, la città si vede attraversata da schiere di giovani e di famiglie migranti. Sono altri uomini e altre donne in cerca di un approdo in Europa.
La nostra visita più toccante è stata al campo di Vucjak: un campo spontaneo non gestito da alcuna istituzione se non dalla Croce Rossa locale, che distribuisce generi di prima necessità e cerca di accompagnare alle visite mediche le persone più malate. Per arrivare al campo si deve uscire da Bihac e salire per qualche chilometro su una strada sterrata.
Il campo di Vucjak
I primi segni di presenza umana si notano vicino alla chiesa del villaggio, pressoché disabitato: una processione di uomini e di giovani (solo maschi) con bottiglie e taniche di plastica che vanno a fare rifornimento. Nel campo non c’è acqua, non c’è corrente. Quando si arriva colpisce il rumore di un generatore che alimenta un groviglio di prese per caricare i telefoni cellulari, strumenti vitali col loro segnale GPS che guida al confine.
Colpisce una tanica appesa a un albero, con un pezzo di sapone appoggiato su un ramo: è la doccia comune per potersi lavare all’arrivo, prima di entrare nel campo. La montagna è lì davanti, con i suoi colori autunnali, splendidi, che contrastano con la miseria del campo. Vediamo le file ordinate e pazienti di uomini per andare a bere un tè caldo portato dall’ONG Ipsia-Acli con Caritas. Notiamo la cordialità e il rispetto degli sguardi, ma anche il dolore e la sfinitezza di viaggi giunti allo stremo delle forze.
«Questa è la mia dolce casa», ci dice, aprendo la sua tenda, un signore pakistano. «Da dove venite?» Dall’Italia – rispondiamo». «Italia it’s good – dice lui», e chiama gli amici affinché portino una bottiglia di Coca Cola da bere insieme. Non hanno niente, eppure l’ospitalità è ancora sacra!
La confusione dentro al campo, in questo autunno, sta aumentando di giorno in giorno. Ci chiediamo: ma dove vanno? Come fanno a resistere? Cosa li spinge a vivere in condizioni così sub umane, a questo punto forse peggiori delle condizioni da cui sono partiti? O forse là le prospettive erano così buie che qui c’è già un po’ di luce?
Negli incontri con altri volontari di altre organizzazioni abbiamo condiviso la situazione e siamo venuti a conoscenza di altri drammi. La polizia croata in alcuni casi si mostra davvero spietata: i migranti trovati al confine vengono non solo respinti, ma viene loro preso e distrutto il cellulare e le persone vengono fatte spogliare e lasciate letteralmente in mutande; e così, prive di scarpe, rispedite nel bosco.
Senza parole
Questi racconti scompaginano «dentro», fanno gridare e ripetere se questo è un uomo? Interrogano e scompaginano persino le certezze di fede e di carità.
Una cosa è certa: non è stata la nostra volontà ad attraversare il confine, ma sono stati loro, i migranti, con i loro racconti, ad attraversare noi, in profondità, come una grazia di Dio. Sentiamo ora il bisogno di trattenere – e non solo per noi – ciò che ci è venuto incontro da sé. Sentiamo il bisogno di trattenere e di rilasciare il tutto in un momento di profondo silenzio e di preghiera.
In Bosnia si grida in tante lingue diverse: si grida in arabo, si grida in inglese… si grida con un «ciao» detto in italiano. Per ascoltare tutte questa grida c’è bisogno di fare un grande silenzio. «L’uomo ha bisogno di caldo silenzio, e invece gli si dà un gelido tumulto» (S. Weil).
Don Dario Crotti è direttore della Caritas di Pavia.
“Poveri diavoli, peggio dei cani!” diceva nonna Giovanna mentre scorrevano in TV le immagini dei profughi, ora bosniaci, ora siriani.
Lo direbbe ancora, se le mostrassi le fotografie di due poveri diavoli, addormentati e invano avvolti nelle coperte sotto i portici di via della Poste, qui nella civilissima Brescia, giovedì 21 ottobre.
Lo direbbe con poca voce, quella che le restava, scrollando il capo quando in TV, a “I soliti ignoti” l’allegro ignoto di turno, infine si qualificava come sarto su misura per i cani da compagnia, e la sorridente ignota di ieri, 3 novembre, domenica (il giorno del Signore), assicurava d’essere esperta nella preparazione di aperitivi e di matrimoni per cani.
Lo dico anch’io, con molta pena e con almeno un po’ di vergogna per la pochezza del mio solo saltuario soccorso, e insieme con insufficiente indignazione per il “daspo” ufficioso e talvolta ufficiale (ad esempio a Como) riservato ai “poveri diavoli”, immeritevoli di abiti su misura e di aperitivi per cani.