Impariamo presto, a gufare. A invocare la iella su qualcuno, a sperare nelle disgrazie altrui, a sghignazzare (silenziosamente, se ci riusciamo) quando qualcuno che non ci è simpatico fa una brutta figura, fallisce clamorosamente, cade in disgrazia. Lo impariamo presto dai “grandi” e lo insegniamo presto ai piccoli.
Perché impariamo presto? Perché fa parte del “gioco”, nel senso che è parte integrante della chiacchiera sportiva. Si fa il tifo per una certa squadra, ma è perfettamente normale che all’incitamento per quei colori si accompagni la speranza che qualche altra compagine – magari una in modo particolare – possa invece, in un’altra partita, ingloriosamente perdere.
E questo non vale solo nel calcio: che si tratti di motociclismo o di sci, di tennis o di ciclismo, la fama di un campione attiva schiere di persone che rimangono in fiduciosa attesa della sconfitta che inevitabilmente verrà, prima auspicata e poi accolta con giubilo.
E ho l’impressione che questo atteggiamento sia ben diffuso anche in altri settori, apparentemente “leggeri”, dell’agire collettivo: anche nella musica o nel cinema si è ben contenti se la/il tale cantante o il/la tale attore/attrice fallisce una prova; tale fallimento può darci più soddisfazione di una brillante performance.
I social media amplificano tutto questo, rendendo ancora più forte e più divertente l’invettiva, che si carica e si moltiplica nei gruppi che condividono l’ostilità.
Un moralista potrebbe, a questo punto, far notare che l’atto di gufare è, in quanto desiderio del male altrui, una manifestazione del peccato capitale di invidia; è dunque qualcosa di non piccola entità.
Quello stesso moralista, nell’attimo in cui esprimesse tale valutazione, verrebbe immediatamente travolto da un’ondata di dissenso, all’interno della quale due voci si alzerebbero, alte, tra le altre. Una domanderebbe, retoricamente: “ma che male c’è?” e, senza attendere risposta, farebbe notare come il gufare non comporti alcuna opera o omissione (non vorrete mica pensare che le maledizioni funzionino, vero?): ci si limita a prendere atto di quel che poi accade. Ma ancora più forte sarebbe l’altra voce, che asserirebbe con convinzione: “c’è ben altro”.
A quel punto il moralista, zittito dall’ondata, si ritirerebbe confuso, dovendo ammettere che è vero: c’è ben altro, ci sono comportamenti ben più violenti e distruttivi che bisogna (bisognerebbe) stigmatizzare.
Eppure il biblista potrebbe a quel punto soccorrere il moralista portandogli i primi versetti del libro di Ezechiele, capitolo 25.
«Annunzierai agli Ammoniti: Udite la parola del Signore Dio. Dice il Signore Dio: Poiché tu hai esclamato: Ah! Ah! riguardo al mio santuario poiché è stato profanato, riguardo al paese di Israele perché è stato devastato, e riguardo alla casa di Giuda perché condotta in esilio […]».
Gli Ammoniti non hanno profanato santuari, non hanno devastato alcunché, non hanno portato in esilio nessuno, non hanno fatto nulla di quel che viene rimproverato ad altre nazioni cui Dio annuncia un duro giudizio: hanno semplicemente gufato (la vecchia CEI traduceva quell’onomatopeico Ah Ah!, per essere più chiara, con Bene!). Il peccato degli Ammoniti è stato “solo” il gioire della distruzione altrui. Niente di grave? Dio non è d’accordo.
«Siccome hai battuto le mani, hai pestato i piedi in terra e hai gioito in cuor tuo con pieno disprezzo per il paese d’Israele, per questo, eccomi: Io stendo la mano su di te e ti darò in preda alle genti; ti sterminerò dai popoli e ti cancellerò dal numero delle nazioni. Ti annienterò, e allora saprai che io sono il Signore».
Potremmo relegare questi versetti nel novero delle tante cose da “Antico Testamento” che appartengono ad altre epoche, parlarono ad altre persone, intesero altri significati. Ma la violenta sanzione promessa in questi versetti sta in diretta connessione con i comportamenti denunciati da Dio per mezzo del profeta. Un popolo che gioisce delle disgrazie del vicino cessa di essere tale, si qualifica come inutile, inconsistente, vuoto. Se rimane solo la gioia per il male altrui, quel popolo perde – o meglio: ha già perso – qualunque cosa possa costituire la propria identità e la propria autocoscienza. Viene annientato: diventa un nulla.
E allora queste non sono storie vecchie. Sono storie umane. Per l’uomo, il passaggio dal comportarsi da “gufo” per gioco – nelle piccole cose – al farlo in altri ambiti della vita associata è molto breve. Ci vuol poco a gioire odiosamente delle disgrazie del vicino, pochissimo a giudicare con il metro del tifo sportivo personaggi pubblici portatori di pesanti responsabilità.
E quando l’attitudine a gufare (a invocare la disgrazia e a gioire per essa) raggiunge la politica, ebbene, dietro al simpatico gufo si acquatta in agguato qualche bestia molto peggiore. Se la politica non è più la lotta degli umani contro la morte ma un torneo sportivo o un talent show, si giudica del merito delle questioni a seconda della simpatia o (più spesso) dell’antipatia di coloro che le sostengono o ne parlano. Se lui la pensa così, io penserò colà; se sostiene una tesi, riterrò valida l’altra; se cerca di obbligarmi a un comportamento, mi sentirò legittimato a fare l’opposto, senza valutare le conseguenze o sentirmene responsabile.
C’è una vignetta firmata da Maurizio Zacchi e Sergio Staino (luglio 2019) che sintetizza la situazione in questo modo. La figlia di Bobo – il protagonista di tante vignette di Staino – chiede: «Fascisti, razzisti, incompetenti. Com’è stato possibile tutto questo?» E Bobo risponde, con sincerità e un po’ di imbarazzo: «Sai, mi stava sulle balle Xxxxx».
«Mi stava sulle balle Xxxxx». Mi era antipatico, non potevo sopportarlo, mi dava fastidio. Quando un popolo – anche quella parte di esso che pretende di essere riflessiva, democratica, pluralista, “di sinistra” – usa queste categorie (e come le usa!), gufare diventa davvero pericoloso. E se comportarsi in questo modo è già rischioso quando si tratta di questioni opinabili, è deleterio quando entrano in campo i dati.
C’è gente che, pur di gufare, nega l’evidenza, preferendo la cecità o rifugiandosi in una memoria da criceti. Di solito lo fa per antipatia verso coloro che stanno cercando di dare l’allarme. Perché mi comporto così, perché le conseguenze peggiori non mi spaventano? Semplice: perché chi sta denunciando queste cose «mi sta sulle balle». U-hu.
Dunque, il problema c’è. Rileggiamo Ezechiele 25, mettiamo sulle Tavole della Legge un bell’undicesimo comandamento: «Non gufare» e cerchiamo di rispettarlo. (È facile? Certo che no. Dovrei smettere di desiderare che la Xxxxxxxx perda? Smettere di gioire quelle poche volte in cui succede? perché? dov’è il problema? non faccio niente di male…).
Articolo pubblicato su Il Margine, n. 6/2019.