Nella ricorrenza delle leggi razziali e dell’anno anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale pubblichiamo un’intervista a Zara Finzi, curata da Giordano Cavallari di cui è stata maestra di prima elementare. Nata a Mantova nel 1937 da padre ebreo e da madre cattolica, Zara Finzi risiede e opera a Bologna. Laureata con una tesi in filosofia estetica sotto la guida di Luciano Anceschi, a lungo insegnante di Lettere in scuole di vario ordine e grado, è presente in riviste e antologie e ha all’attivo numerose pubblicazioni di sillogi poetiche.
– Cara maestra Zara, una tua poesia della raccolta Per gentile concessione 1943-1945 (ed. Manni, 2012), si conclude in maniera molto evocativa: la bambina sapeva che veniva da quella luce. Cosa conserva questo verso della tua storia di quegli anni di bambina da madre cristiana cattolica e da padre ebreo?
Quel libro – Per gentile concessione – è da leggere appunto come una storia, anche se è un libro di poesia. È un racconto che va da un certo inizio sino al giorno in cui torna a casa mio padre. Per scrivere quel libro, dopo molti anni, sono tornata bambina. Solo scrivendo ho scoperto quanto la mia memoria più fulgida sia proprio quella della mia infanzia, sicuramente a motivo di ciò che ho vissuto in quel periodo.
La mia infanzia è stata tragica. Consapevolmente, ho conosciuto la mia storia in seguito dai racconti di mia madre. Ma evidentemente solo allora ho respirato l’atmosfera di quel tempo.
Ti ricordo un episodio rintracciabile in una delle pagine del libro citato: ricorda un tedesco che, mezzo ubriaco, ho sentito allora gridare: bambini ebrei e russi, tutti Kaputt! Quel tedesco, vedendo mia madre impallidire, ha voluto rimediare prendendomi dalle sue braccia e dicendo: “no, bambini italiani no… dare a me, dare a me…”. Mia mamma, cattolica sposata con un ebreo – evidentemente ben consapevole del pericolo –, stava impazzendo. Per fortuna mia zia ha detto alla mamma “dagliela, dagliela…”. Quell’uomo mi ha preso e mi ha cullato ripetendo: “bambini italiani nooo… nooo”, come stesse cantando una ninna nanna. Figurati se non è rimasto questo dentro di me! Allora ero una bambina di 5 anni. Oggi ho 81 anni.
In terza persona singolare
Ti voglio leggere subito la poesia che rivive la sensazione più intensa di quel tempo: il ritorno a casa di mio padre, dopo 2 anni dalla sua fuga in Svizzera per salvare la vita.
Veniva avanti dall’ombra del fienile
mentre lei, avida di meraviglie,
si schiacciava le mani sugli occhi
per scorgere scintille e apparizioni.
Qui ho ricordato il gioco che facevo da bambina premendo le palpebre per vedere le “stelline”. Da adulta, quindi, ho rivissuto quel gioco per descrivere l’apparizione di un padre che non ho immediatamente identificato. Stavo infatti scappando davanti a un uomo molto magro e vestito da cittadino (mentre io ero abituata a stare in mezzo ai contadini nella profonda campagna mantovana). L’ho visto e lui ha gridato il mio nome: “Zara”. Ho avuto paura. Ho fatto per scappare. Poi sono tornata indietro. L’avevo riconosciuto.
– Perché hai scritto in terza persona singolare?
Quando le cose sono veramente intime, ricorro alla terza persona per non esserne coinvolta. Certi ricordi intimi mi fanno ancora male, se dicessi “io”, li rivivrei in modo troppo presente. È una forma, benché parziale, di distacco da me stessa che distingue le poesiole dalla poesia.
– Anche tu, come altri noti autori, sei ritornata dopo molti anni a scrivere di quel passato. Chi ha vissuto quelle vicende, per molto tempo, non ne ha parlato. È proprio vero? Perché?
Certe vicende io le ho conosciute solo in seguito, non certo da mio padre: lui non me ne ha mai parlato nei pochi anni che è vissuto a Mantova prima di morire. È tornato dalla Svizzera nel ’45 ed è morto nel ’49. Io oggi ho un grande rammarico: mio padre aveva scritto, in quei due anni da rifugiato in Svizzera, un diario che aveva portato a casa. Ricordo che diversi anni dopo la sua morte, mentre stavamo facendo il trasloco e stavo studiando tanto per i miei esami, mia mamma mi ha detto: “guarda, qui c’è il diario del papà, cosa ne facciamo…?”. Io l’ho guardato un poco. Non mi è sembrato scritto da Primo Levi. E quindi ho detto alla mamma: “Senti, brucialo pure”, ed è stato bruciato. Pensa, non mi sono resa conto. Oh, se lo avessi adesso!
Dunque, non si parlava in casa di quanto era accaduto alla famiglia. Si doveva cancellare. Era una storia troppo assurda e dolorosa, da cancellare. Non ci si dava ragione del perché era accaduto. Tornarci su voleva dire rivivere una follia senza potersene dare una ragione. Dolore su dolore. Senza senso.
– Si può dire ci fosse, in questo silenzio della famiglia, una componente di pudore o persino di immotivata vergogna?
No. Per quanto mi riguarda, no. Mai. Colpe, no. Semmai, paura. Ti racconto un altro fatto.
Sempre nel periodo ’43-’45, mia mamma scriveva poesie. Lei mi leggeva poesie, non solo le sue, e io le recitavo nel teatro del paese. Ricordo che un giorno due ufficiali tedeschi mi hanno sentita mentre stavo declamando la vispa Teresa e altro. Hanno riso. Mi hanno battuto le mani. Uno poi si è avvicinato e mi ha detto: “Sei una brava bambina, come ti chiami?”. “Zara!”. “E poi?”. “E poi… non lo so…”. E se ne è andato, probabilmente dicendo con l’altro: “strano che una bambina così sveglia non sappia dire il suo cognome”. Arrivata a casa, ho raccontato l’episodio alla mamma. “Sai mamma, ho detto solo il nome, non ho detto il cognome”. “Oh Zara, non ti ho detto che non devi dire mai il cognome, non devi dire mai il cognome!”.
Avevo capito a 5 anni, da sola, che ai tedeschi era meglio non dire. Altre famiglie di ebrei sono rimaste nel mio paese natale cambiando il cognome. Noi, Finzi, non abbiamo cambiato cognome e siamo sfollati presso i parenti, in campagna, dove non ci conoscevano. Io non sono ebrea per nascita. Tu sai che la discendenza ebraica viene dalla madre, non dal padre. Ma sai anche che le leggi razziali del ’38, nel caso dei matrimoni misti, lasciavano molti margini di arbitrio. I tedeschi poi…
Storia di una vita
Ecco, anche in seguito, per tanti anni, mi è rimasta la paura del mio cognome: Finzi. Tanto è vero che, quando mi sono sposata, ero contenta di potermi chiamare col cognome di mio marito. Mi era rimasta dentro la paura che qualcuno mi volesse ancora rintracciare. Adesso non ho più paura. Adesso, da vecchia, sento anzi di dover fare pubblicamente da testimone. Col mio cognome. Con orgoglio. Proprio perché i testimoni che sono stati nei campi di concentramento – gli ultimi – stanno morendo.
– Vuoi ricostruire la tua storia?
Io sono nata nel ’37 da madre cattolica e da padre ebreo. Sono stata battezzata e ho fatto la comunione e la cresima. Era una delle condizioni che aveva messo la mamma nel matrimonio civile col mio papà, ossia che i figli fossero battezzati ed educati nella Chiesa cattolica. La chiesa è stata effettivamente la mia casa, alla quale io devo molto per tutto le tragedie che ho vissuto anche in seguito alla morte di mio papà. Mancavano i soldi per vivere. Mia mamma era sempre, piangente, in cerca di lavoro. Da giovane, la mia casa, per molti anni, è stata la chiesa di Sant’Andrea a Mantova. Quando, più avanti negli anni, sono entrata un giorno in basilica con le mie figlie, ho sentito di poter parlare a voce alta nel silenzio: “questa è casa mia!”. Sono stata dunque cresciuta dalla Chiesa degli anni ’50 e ’60, col bene e col meno bene che c’era. Devo dire che la Chiesa mi ha salvato allora dalla disperazione che io respiravo nella mia casa.
– Tuo padre che grado di consapevolezza e di appartenenza aveva dell’ebraismo?
Francamente non lo so, perché di fatto non l’ho conosciuto. È andato via quando avevo 5 anni. Quando è tornato, sono accaduti tanti fatti in poco tempo. Papà stava male. E dopo pochissimi anni è morto.
Ho una sua lettera che mi è molto cara. È del periodo in cui mio papà è tornato dalla Svizzera. Traspare tutta la sua moralità, forse la sua religiosità. Scrive al dottor Pacchioni di Marmirolo, il 20 maggio 1945. Era appena tornato dalla Svizzera. Dice: Caro dottore, da qualche giorno sono rimpatriato dal lungo, doloroso esilio ed ho, grazie a Dio, trovato bene mia moglie e mia figlia. Invece mio padre, mio fratello e mia sorella non torneranno mai più dalla deportazione. Sia pace a loro. Sono ansioso di rivederla, di riprendere con Lei le vecchie discussioni che facevamo sottovoce e celati in casa mia. Desidero, come sempre ho fatto, esporle i miei piani per l’avvenire prossimo e futuro avvenire che deve essere di giustizia e di libertà. Ricorda i tempi, caro dottore, quando in preda alla disperazione le affidai mia moglie e mia figlia? In lei ho sempre avuto fiducia; l’oggi che viviamo mi dice quanto tale fiducia fosse ben riposta. Ho saputo dell’attiva opera da lei prestata ai Patrioti durante i combattimenti che hanno avuto luogo per la liberazione di Marmirolo. Oltre all’indubbio encomio delle Autorità anche il mio affettuoso e sincero grazie. La sua opera di assistenza morale, di sabotaggio, di contro propaganda apparirà presto nel suo giusto valore per la meritata ricompensa per gli anni di sacrificio. Mi riservo di fare assai presto una scappata a Marmirolo. In quell’attesa l’abbraccio, Ettore Finzi.
– Era dunque un ebreo laico e assimilato?
Un mio trisnonno è stato senatore della repubblica. A Mantova c’è una via a lui dedicata: via Giuseppe Finzi. Gli ebrei della mia famiglia si sentivano italiani. Erano molto laici e assimilati. Molti ebrei sono stati fascisti della prima ora, com’è noto. Hanno partecipato come tutti gli italiani alla vita politica del paese. Senza certo pensare a ciò che sarebbe venuto dopo.
– Qual è stato dunque l’impatto delle leggi razziali sulla tua famiglia?
Non ho sentito immediatamente l’impatto delle leggi razziali. Solo dopo, solo durante la guerra, solo a seguito dei fatti che ti ho già un poco narrato ho cominciato a intuire qualcosa del significato del portare un cognome da ebrea. Neppure mi sono resa conto, prima, che il papà fosse ebreo. Ero molto piccola. Ma evidentemente, anche prima della guerra e dell’occupazione, dal ’38, qualcosa deve essere occorso al papà. Hai ascoltato le parole della sua lettera. Mio padre sapeva e soffriva già da tempo, prima di fuggire. Percepiva evidentemente un pericolo incombente. Ci sono stati appunto incontri segreti in casa di sera, in cui si parlava di libertà e di un avvenire migliore. Io a quell’ora dormivo. La mamma non me ne ha mai parlato.
Lei non ha avuto timore, da cattolica, di sposare un ebreo. Per me è importante. Mia mamma era molto devota a santa Rita. Lo è rimasta per tutta la vita. Ma non ha avuto esitazione a sposare civilmente il suo uomo ebreo.
– Quale sorte hanno avuto i membri della famiglia di tuo padre?
Mio papà aveva due fratelli e una sorella. Uno dei fratelli era ingegnere delle telecomunicazioni. Per conto del governo era in Eritrea, ad Asmara. Quando sono state emanate le leggi razziali in Italia, lui ha capito il pericolo ed è rimasto là. E si è salvato. L’altro fratello, Renzo, di 23 anni, stava studiando chimica a Firenze. La sorella Ida era a Mantova con i genitori.
Nel momento dell’occupazione nazifascista, Renzo si è precipitato a Mantova nell’intento di fuggire con la sorella. Ida, invece, era andata alla ricerca del fratello a Firenze.
Mio nonno, nello stesso periodo, è stato preso e portato nel campo di concentramento mantovano, allestito nella stessa sede della comunità ebraica, per essere poi deportato. Devo dire che il nonno è andato nel campo senza rendersi ben conto di quanto stava accadendo. Il suo motto era: male non fare, paura non avere. Sapeva di non aver fatto del male. Non pensava che qualcuno volesse fargli del male.
Renzo, non avendo trovato la sorella e non potendo più tornare indietro, è andato, con due compagni di università verso la Svizzera. Essi sono stati testimoni della vicenda. Hanno pagato insieme un passatore per arrivare, in montagna, sino al confine svizzero. Quando sono giunti verso il confine, lo spallone li ha lasciati: avrebbero dovuto superare la rete e passare il confine da soli. Ma una guardia italiana li ha sorpresi e ha intimato loro di fermarsi. I due compagni hanno rischiato subito la vita e sono riusciti ad arrampicarsi e a passare. Mentre Renzo è tornato indietro con le mani alzate. È stato preso e portato nel campo di Fossoli.
C’è la precisa testimonianza di un prete che assisteva gli internati a Fossoli. C’è una lettera di questo prete. Da lui sappiamo che Renzo – un ragazzo pulito e davvero senza alcuna colpa – ha continuato a studiare anche a Fossoli, ancora fiducioso nel futuro. È stato, infine, messo sui treni.
Ida ha cercato ospitalità dalla donna che era stata la domestica di famiglia, prima che fosse impedito agli ebrei di avere domestici ariani. Questa donna aveva tre figli maschi: non si è sentita, col rischio dei tedeschi in paese, di ospitare Ida, anche se avrebbe voluto. Così Ida è tornata in città e si è consegnata spontaneamente alla Comunità per ricongiungersi al padre. Aveva 20 anni.
Padre e figlia sono stati caricati insieme nei carri bestiame. Da quel momento abbiamo di loro solo voci incerte. Probabilmente il nonno, già malato, è morto nel corso del viaggio in quelle condizioni. Ida sembra abbia trovato l’amore di un ragazzo in quel tragico viaggio. L’aiuto di questo ragazzo, di nome Parigi, le ha consentito di superare gli stenti sulla tradotta e di giungere a Birkenau, ma di quel che le è avvenuto in seguito non abbiamo saputo più nulla…
Alle porte della notte
Solo la Germania, nel ’47-’48, ha attribuito 400.000 lire allo zio sopravvissuto e 400.000 alla mia famiglia per rifonderci della morte di questi nostri cari. Tutto quanto è accaduto è semplicemente assurdo. Ancora oggi, io penso a quelle vicende come a qualcosa di totalmente incomprensibile e assurdo.
– E tuo padre?
Io continuavo ad aspettare mio papà tutte le sere. Chiedevo alla mamma: “il papà dov’è!?”. Lei diceva: “verrà, verrà…”. Come ho scritto in una mia poesia gli avevo messo da parte il petto di pollo che a lui piaceva e lo aspettavo. Un certo giorno, su mia insistenza, mia mamma mi ha detto: “Zara, tu continui a chiedermi del papà. So che sei una bambina intelligente. Ti dico una cosa: è un grande segreto. Non ne devi parlare. I tedeschi vanno fino alla settima generazione se lo sanno e ti ammazzano. Il papà è vivo, è in Svizzera. Non devi dirlo mai a nessuno!”. A 5 anni mi sono sentita dire questo. Mi è rimasto sempre dentro.
– Sai che vita ha fatto in Svizzera?
Ha fatto una vita terribile. Là si è rovinato lo stomaco. È stato ricoverato più di una volta all’ospedale di Losanna per cure. Ricordo che diceva di aver mangiato patate, fagioli, carote, quindi patate, fagioli, carote. Era in un centro di raccolta di profughi e di rifugiati. Là si sopravviveva, ma si stava male. Quando è tornato, la sua ulcera lo ha portato presto alla morte. Allora non c’erano cure adeguate.
Ti leggo sulla morte del papà gli ultimi versi di una mia poesia (nel volume La porta della notte, Manni 2008):
E lo portano giù per il ventaglio dei gradini.
Si allontanano le righe del pigiama nella notte.
Della fine dell’Infanzia.
Dell’Assenza.
Le righe del pigiama sono insieme le righe dei condannati a morte nei campi di concentramento e le righe del pigiama che mio padre effettivamente portava nel momento in cui sono arrivati a casa i portantini con la barella per ricoverarlo in ospedale.
– Cosa senti di avere a che fare con gli ebrei, con l’ebraismo, da battezzata cattolica a lungo frequentante e pure impegnata, mi pare, nella Chiesa?
L’appartenenza ebraica l’ho sentita dopo. Io sono molto riconoscente alla Chiesa cattolica. Sono stata beniamina, aspirante minore, aspirante maggiore ecc.. Io ci stavo bene in chiesa. Durante la guerra andavo dalle suore a Gazzuolo per imparare a ricamare. Cantavo con le suore tota pulchra, mi piaceva tantissimo.
Diventando adulta, studiando, ho trovato però incongruenze e chiusure nella Chiesa. Mi interessa qui rivelarti una mia verità intima, che ha a che fare – penso – con la tua domanda: quando io mi confessavo e facevo la comunione – con il mio rendimento di grazie e le mie domande al Signore – non mi rivolgevo a Gesù, ma a Dio Padre. Spontaneamente. Anche oggi. Gesù è per me una figura meravigliosa, ma non come Figlio di Dio o come Dio. Non so se questo viene dalla mia componente ebraica.
Io sono orgogliosa in qualche modo della cultura ebraica. Per un periodo della mia vita ho frequentato il rabbino di Bologna. Sono andata da lui per conoscere meglio la cultura ebraica, non per la religione ebraica. Ho capito che la cultura ebraica era ed è di una profondità straordinaria. Mentre da parte cattolica – permettimi – ho trovato spesso molta (e voluta) ignoranza. Io oggi non sono più praticante.
Responsabilità di una Chiesa
Quando ho bisogno di meditare, vado qui a Bologna nella chiesa di Sant’Antonio, mi siedo e parlo con Dio Padre. A volte apro la Bibbia e la leggo. È un modo per parlare con Dio. Per me non c’è dunque differenza tra il Dio antico e quello nuovo della Bibbia. Forse ho nella testa una bella confusione tra cattolicesimo ed ebraismo. Ma per me Dio è un solo Dio Padre.
– Attribuisci qualche responsabilità alla Chiesa cattolica sull’antisemitismo?
Sì. Non mi convince la tesi su Pio XII secondo la quale, se fosse intervenuto con decisione sulla Germania di Hitler, avrebbe prodotto una catastrofe maggiore. È una mia idea, non conosco chiaramente i fatti, ma per me il papa avrebbe dovuto fare come Cristo avrebbe fatto. Certo, so personalmente che molti ebrei sono stati salvati dal papa e dalla Chiesa a Roma. Per me, la faccenda degli “ebrei deicidi” ha influito sulla mentalità della gente e ancora sussiste nei cattolici del mondo. Io la sento ancora addosso.
– Cosa pensi del riaffiorare dell’antisemitismo in maniera ricorrente e proprio in questi giorni in Italia?
Io sono terrorizzata. Sono nata col fascismo. Non immaginavo di dover rivivere quella atmosfera. Ma, come ti ho detto, ora sono orgogliosa di essere testimone ebrea. Ho 81 anni. La morte mi è amica e compagna: che cosa il fascismo mi può fare ancora? Voglio fare da testimone, voglio fare ciò che non mi sono mai sentita di fare prima. Non ho più paura. Gli ebrei sono stati nella storia buoni e cattivi come i cristiani e come tutti. Ma quanto è stato perpetrato contro gli ebrei è qualcosa di indicibile. È follia pura.
Antisemitismo di ritorno?
– Testimoniare e ricordare pensi possa davvero ingenerare una sorta di immunizzazione rispetto ai rigurgiti di antisemitismo? Per certi versi, non sarebbe meglio dimenticare?
Sarebbe bene dimenticare. Volesse il cielo! Se non accadesse più niente. Ma come si fa a dimenticare? Io non posso dimenticare. Come posso dimenticare quando in televisione e sui giornali sento e leggo quel che si dice e quel che accade ancora?
– Concludiamo, come siamo partiti, con la poesia. Come torna questo vissuto nei tuoi libri di poesia?
Torna sempre. Magari è nascosto. Magari ne parlo in terza persona. Non tutti i lettori sono in grado di cogliere. Fa parte di me e quindi dei miei libri. La mia vita da bambina è stata travagliata. È nata così, in un dramma della storia. Sono ora felice di essere vecchia. È quanto volevo. Non vorrei tornare affatto indietro alla mia giovinezza.
– Nella tua poesia percepisco la carica di sofferenza di cui hai parlato, ma anche molta leggerezza e, se così si può dire, speranza…
Certamente c’è molta sofferenza. È vero: c’è anche leggerezza, nel senso di una certa autoironia, forse – chissà – di natura ebraica, perché non voglio mai piangermi addosso: non farei vera poesia. La speranza è infine. Non è una speranza astratta o rimandata all’aldilà, è la forza che ho trovato di vivere in mezzo a tanti guai. Non so da dove venga. È la forza di lasciare un ricordo forte alla mia famiglia, alle mie figlie, alle mie nipoti.
In te sono
Mentre domando nella breve ombra placata
In te conosco e significo la parola luce.