Le storie di Mamma Floare erano sconvolgenti: brulicavano di diavoli, maghe e lupi mannari, evocavano l’America e Bucarest, erano piene di navi di porcellana, case alte fino alle nuvole, treni che si inseguivano sotto terra, un mulino a mano per fare soldi. Visionario e poetico, il romanzo autobiografico dello scrittore rumeno Radu Sergiu Ruba, Donne di altre dimensioni, in uscita da Marietti 1820, racconta il Novecento dall’osservatorio di un villaggio della Transilvania in cui si parla rumeno, ungherese e tedesco. Le storie di famiglia si intrecciano con icone piangenti, maledizioni, macchinari diabolici che fabbricano illusioni, la memoria di Auschwitz e la fine di Ceauşescu. Una vasta galleria di personaggi dotati di grande forza espressiva nel quadro di un mondo autenticamente cosmopolita che, nell’intreccio di diverse nazionalità, conosce la pacifica convivenza. Pluripremiato in Romania, il romanzo di Ruba racconta di donne capaci di animare tutto ciò che toccano, di esorcizzare la banalità della vita. L’autore, divenuto cieco all’età di undici anni, si è dedicato al giornalismo e alla letteratura collaborando con quotidiani, riviste ed emittenti radiofoniche. Ha tradotto in rumeno Michel Tournier, Gilles Lipovetsky, Olivier Rolin, Nicolas Ancion e Corinne Desarzens e, nel 1993, è stato premiato per la sua attività di scrittore dal Ministero degli Affari Esteri francese. I suoi libri sono tradotti in francese, inglese, bulgaro, tedesco, ungherese, spagnolo e arabo. Donne di altre dimensioni ha ricevuto il premio Radu Petrescu della Società degli Scrittori di Bistriţa-Năsăud, il premio per la prosa del Festival Poesis di Satu Mare e il premio Ion Creangă dell’Accademia Romena.
Proponiamo un capitolo dal libro Donne di altre dimensioni (traduzione di Giuseppe Munarini).
Nel mio letto, attaccato alla parete che ci divideva dal posto della milizia, ascoltavo, quasi ogni sera fino alla partenza per Cluj, ma anche, successivamente, in qualche giorno di vacanza, storie spettacolari e di un’intensità difficilmente sostenibile. Neppure Le mille e una notte che, alcuni anni dopo, una signorina mi avrebbe letto in quegli stessi luoghi, negli uffici del Municipio, superarono i racconti di mamma Floare. Custodivano qualcosa di pauroso, di insolito, di luminoso e autentico, conferito dalla sua presenza come personaggio in tutte le narrazioni, e dal tono convincente con cui le sviluppava. Una sera apparve correndo dal fondo del cortile e, quasi senza fiato, mi disse che era sfuggita a malapena da una motohaliță, una strega, che era ancora lì a spiare da dietro il fienile, e che non andassi in quella direzione. Mai, però, volle descriverci una motohaliță, così come me l’ero immaginata, partendo dal suono del nome, combinazione tra matahală, motore, e caracatița, ossia piovra. Ne usciva una massa nera e informe che scivolava dietro di me, circa mezzo metro al di sopra dei contadini, il che le conferiva una sveltezza particolare: praticamente era come il vento. Grande spavento!… Vedendo che la porta della milizia era aperta, bussai ed entrai in fretta. Nell’ufficio c’era il capo posto Stan Marinescu, mio amico, dalla lingua tagliente.
– Zio miliziano, lei sa che cos’è una motohaliță?…
– Una… cosa? Come si chiama?…
Ha… ha inseguito mamma Floare, adesso, presso il fienile…
– Come dici che si chiama? Dimmelo ancora una volta!
– Una motohaliță, ma prenda il fucile con cui ieri ha ucciso quelle due cornacchie!
Stan Marinescu era un uomo che si muoveva rapidamente; veniva da Argeş. Era tutto azzurro nella sua divisa, con gli stivali ben lucidati e in bocca un fischietto da arbitro che portava sempre con sé in missione, quando cioè, sulla strada davanti all’edificio del Municipio, fischiando, fermava i ciclisti: – Alt! Perché non ti fermi? Fai finta di non capire il romeno? – Alcuni facevano finta. Quando però sentì del fucile e delle cornacchie, mi calmò:
– Lascia stare, domani ci incontreremo con papà e vedremo il da farsi! Va bene?
Dopo di che chiuse tutte le porte dell’ufficio, e alla fine assicurò con una sbarra di ferro e con un lucchetto pesante quella più esterna, che sembrava tutt’uno con la parete della casa. Mamma Floare era scomparsa. Il giorno dopo fu ricevuta, assieme a me, in ufficio dal presidente del comune e dovette rispondere alle domande della polizia. Accanto, il papà sfogliava con atteggiamento divertito alcuni fascicoli.
– Perché mi avete chiamato – cominciò a parlare la vecchia – che non sono ancora pronti i dolci?
– Lascia stare, i dolci ce li darai più tardi, ma ora…
L’inizio con i dolci mi rasserenò.
– Adesso cosa c’è?
– Su, dimmi, zia Florica – chiedeva Marinescu – che cosa sai di quelle tue mangalițe? O come si chiamano?
Floare giurò di aver visto nella sua vita decine di motohalițe; anche nella fanciullezza, accanto a suo padre; aveva visto persino il demonio pescatore in carne e ossa, una notte sulla Crasna, mentre, sistematosi con un grande setaccio sulla parte superiore del fiume, non permetteva ai poveri uomini di prendere nemmeno una carpa, rubava loro tutti i pesci; e se gli uomini si spostavano più in alto, quel maledetto saliva verso la sorgente e deviava il torrente verso di lui. Ma l’aveva visto anche nella notte profonda, quando lei dormiva sulla terrazza; il maledetto portava un carico di legna grande quanto un fienile come fosse una bisaccia di grano…
– Bene, bene, ma lei ha visto anche la Santa Vergine Maria a Pişcari?
– Sì, come no: è discesa dall’icona ed è venuta verso di me quando…
– Guarda, questa proprio non puoi vederla, hai capito? Al diavolo, zia Florica, puoi vedere tutto quello che vuoi, te lo concediamo! Anche le motohalițe, le «moto catapulte», come diavolo si chiamano, puoi vederle, puoi incontrarti con loro, va bene, ma la Santa Madre Immacolata, che non senta più che l’hai vista, altrimenti ci arrabbiamo!
– Te ne dico una, signor gendarme? Non sei tu che decidi quello che deve apparire all’uomo in questo mondo. A me ne sono apparse tante che tua moglie Stela neppure nell’altro mondo le vedrà.
– Lascia stare Stela che ha parecchi problemi da risolvere. E non spaventare più questo ragazzo perché le mie pallottole sono contate. Che cosa dovrò scrivere nel rapporto ai superiori, che vi ho difeso, come dite, dalle rapamgalițe? Tu, Răducu, se ne vedi qualcuna, vieni e fammi rapporto!
Di rapporti non ne feci, ma da mamma Floare sentii altre storie. Erano di due tipi, tutti e due sconvolgenti: le prime brulicavano di grida, diavoli, maghe, parche e lupi mannari, le altre invece parlavano dell’America e di Bucarest; erano infarcite di miracoli mai sentiti prima come le navi di porcellana accompagnate da bianchi uccelli su acque vaste come il cielo, tempeste che spengono il sole in pieno giorno, onde come case, case alte sino alle nuvole, treni che corrono sulle case e altri treni che si inseguono sotto terra, dollari d’argento; un mulino a mano per fare soldi, uomini dalla pelle nera, botti di birra che da sole giungono a casa dagli operai alla fine di ogni settimana e un canto inglese di cui mi sfugge il titolo. Si danzava sulla sua melodia battendo le mani il sabato sera, nella cantina di Lewandowsky nella periferia di Chicago, quando vai verso Hegewisch, nell’Illinois. Si aggiungevano, per quello che posso ricordare, frammenti della vecchia Bucarest; la terra tremava facendo oscillare la lampada del soffitto tanto da farti girare la testa, la bibita e il borş, grandi cani vigorosi che rovesciavano le bancarelle con l’halva, seguiti da accalappiacani, una moltitudine di nonni in una certa Calea Moşilor (via dei nonni), una fontana d’acqua che non si ghiacciava d’inverno nel cortile completamente ghiacciato, il tram a cavalli e il canto: «Chi ti mangia/agnello?/Lei, signore!».
Se l’avessero presa sul serio, il regime comunista avrebbe potuto condannarla per agitazione mistica e per propaganda capitalista.
Era la nonna di mia madre. Suo marito era morto non so in quale anno; non avevo conosciuto il mio avo. Trascorreva i suoi giorni nella sua casa di Pişcari, e la mamma pensò di non lasciarla da sola, ma di condurla a Răteşti perché accudisse me e Lia. Era una vecchia magra, secca, asciutta, di taglia media, ma non minuscola. Indossava solo vestiti neri e sul capo portava un fazzoletto dello stesso colore. Raccoglieva i capelli bianchi in una crocchia, riunendola con una grande forcina di metallo e, spesso, ci mostrava come faceva. Rigida, con le spalle leggermente curve, stava dinnanzi agli ospiti con un bicchierino di palinca che non avrebbe finito fino a che non avesse avuto l’opportunità di parlare e di raccontar loro qualche aneddoto.
Non riuscivo a capire esattamente in quale anno fosse nata. Le affermazioni sue, i racconti degli altri, i miei calcoli iniziali non avevano alcun riscontro. Mettendo a confronto una a una le sue narrazioni con quanto registrato negli archivi americani, credo che l’anno più probabile in cui venne al mondo Floare dovesse essere il 1886, forse il 1887, nel villaggio di Giungi sul fiume Crasna, un insediamento sopra Pişcari. Povera era la sua casa, con quattro ragazze, tutte belle, ma non tanto da far pazzie per loro.
Si danzava nel villaggio e anche Floare, la minore, partecipava. Per piacere di più, si faceva strofinare le guance con una carta rossa. Non si innamorò di uno qualsiasi, ma proprio del figlio del sindaco Pomean di Pişcari, benestante, con una certa fama nei villaggi della vallata. Il cuore del giovane fu preso da un fuoco così grande che non si poteva domare; per questa ragione il sindaco programmò un incontro tra di loro, e, visti i molti impegni in cui era immerso, scelse, per il pranzo in casa della ragazza, il mercoledì. Gli ospiti si ritrovarono con nuovi volti all’uscio e con grande preoccupazione: che cosa preparare in un giorno di digiuno? Li trasse tutti dall’impaccio Floare. Affaccendandosi con rapidità, mentre i genitori conversavano, preparò alcune tagliatelle con le verze così buone che a tutti venne l’acquolina in bocca. Al momento di mangiare quel piatto con le verze, il pretendente fu sicuro di voler compiere il grande passo.
Con grande gioia per ambedue le famiglie, finalmente si stabilì il matrimonio di Gheorghe, figlio del sindaco Pomean di Pişcari, con Florea Nodului di Giungi. Questo era il soprannome del padre della ragazza, non per altra ragione se non per il fatto di caricare il carro con tanto fieno da aver bisogno di molti nodi per le funi con le quali aveva fissato il mucchio di fieno. Rassicurò i contadini, preoccupati che il carro si potesse rovesciare, affermando che i nodi erano tanti e resistenti. Da quel giorno gli fu appiccicato il nomignolo Nod (Nodo), perché, da quelle parti, quella parola era una novità che suonava bene e di cui nessuno aveva sentito il bisogno, visto che per le funi si facevano «monconi» e quando si legava strettamente si diceva încioturată.
Solo che quella bella atmosfera stava per essere rovinata da un particolare che tutti avevano dimenticato, una cosa da nulla, legata all’inesorabile scorrere del tempo secondo le proprie regole: i giovani, prima del matrimonio, passarono dal sacerdote per le formalità di rito; questi notò che Floare non aveva ancora compiuto sedici anni; mancava ancora un mese ed era necessario ottenere la dispensa dall’autorità civile per poter celebrare il matrimonio. Tra la consegna della richiesta in città e l’emissione dell’approvazione che sarebbe stata tradotta dalla lingua di stato ufficiale, l’ungherese, in romeno per la Chiesa greco-cattolica, ci sarebbe voluto ben più di un mese, ma il matrimonio era già stato fissato per la settimana successiva con i testimoni già scelti, gli inviti già fatti e i suonatori già ingaggiati. Il sacerdote allora decise di officiare un breve servizio religioso per salvare le apparenze, ma non un vero matrimonio, bensì una benedizione per la salvezza e il rafforzamento della fede dei pochi presenti, gli sposi e i testimoni. Un mese dopo, con l’impegno che avrebbero mantenuto il segreto, avrebbe celebrato il vero matrimonio. Fino ad allora, però, ai due giovani era vietato avere rapporti.
– Tu, ragazza, sino a quel momento dormirai con me – decretò la madre dello sposo. E così avvenne. Soltanto che lo sposo, in quel lasso di tempo, braccava sempre la sposa nella cucina estiva e nel fienile e, siccome neppure lei sapeva bene come comportarsi, la pizzicava e le provocava dei lividi, spingendola in tutti gli angoli.
Il matrimonio si celebrò con molta gioia; passò anche quel mese, si celebrò il matrimonio conforme alla legge, si compilarono e si inoltrarono i documenti necessari: passò quasi l’anno. Con la sua gaiezza, bellezza e alacrità, la nuora era diventata l’ornamento della casa del sindaco, che non si tratteneva dal lodarla dinnanzi a tutti. Soltanto suo marito borbottava che sua moglie lo chiamava a volte Gheorghe a volte Gyuri. Cercava di convincerlo che diversamente non poteva fare, perché il mondo era pieno sia di Gyuri sia di Gheorghe, che non puoi scegliere, ma devi lasciare la lingua libera di pronunciare il nome che le viene più facile.
Un lunedì, due settimane dopo la Pasqua, il cortile del sindaco di Pişcari si riempì di gendarmi, di ufficiali giudiziari, di uscieri, di funzionari che iniziarono a mettere i sigilli e i timbri del tribunale sulla casa, sul giardino, sui fabbricati collaterali, sugli animali: su tutto ciò che aveva. Quell’uomo magnanimo aveva garantito prestiti a tutti i poveri del villaggio e ora era giunta la scadenza. Aveva avuto rinvii su rinvii. Pomean cercò di andare ancora in giudizio, ma gli fu rifiutato e quando ritornò dal tribunale, comprendendo di aver perso tutto e che non avrebbe più vissuto nella sua casa, quando varcò la soglia, il suo cuore non resse. Tutto si era dissolto in un solo giorno, come per magia. La moglie del sindaco stava per impazzire, diceva di voler lasciare questo mondo, voleva farsi monaca, ma siccome non si trovavano monasteri femminili nello spazio di alcuni comitati, piangeva, dicendo che avrebbe indossato il saio, anche se avesse dovuto passare i monti e andare in Bucovina.
I giovani, in tutta questa disgrazia, scelsero con una panca anche gli abiti. Ricevettero ospitalità, con la panca, da una loro zia. Su quella panca mettevano la tavola ed essa serviva da letto a Gheorghe per dormire e sul suo legno appoggiavano i gomiti per poter sorreggere la testa tra le mani, aspettando il domani. Lavoravano per la masseria e per il piccolo pezzo di terra della zia. Un giorno, il giovane Pomean si vide costretto ad andare in un villaggio vicino a lavorare dagli svevi, accanto ad altri poveri che, bisognosi da sempre, guardavano alla sua difficile situazione di bisogno un po’ di traverso. Dai tedeschi, una parola alla volta, venne a conoscenza di quello che gli avrebbe cambiato la vita. Così, una sera, dopo essersi consigliato con altri uomini, decise:
– Andrò in un Paese, l’America. Non so dove sia, nessuno lo sa, so solo che è molto lontano, ma nessuno di quelli che sono ritornati dall’America è venuto senza denaro… Tutti hanno portato soldi e comperato della terra.
– Come parli bene, vai nel Paese che hai nominato e verrò anch’io, un giorno, dopo di te.
Pomean sorrise alle parole della moglie; trovò uomini turbati dalla sua disgrazia, pronti a prestargli i soldi per il viaggio, si riunì con altri spinti dalla disgrazia o dai sogni e imboccò la via verso i porti dell’Adriatico. Floare ritornò nella casa paterna di Giungi e cominciò ad attendere. I genitori e le sorelle andavano ogni giorno nel campo, al mulino, nel bosco, mentre lei accudiva la casa e la fattoria.
È difficile immaginare, all’inizio del XX secolo, in un villaggio romeno della Transilvania settentrionale, che si trovava nell’Impero austro-ungarico, quanta pazienza, quanta speranza e quanta inquietudine fossero contenute nel cuore di una moglie di diciassette anni il cui marito era partito verso occidente, verso una terra che prometteva la guarigione dalla povertà. Più facile, invece, immaginarsi il viaggio di Pomean verso il Nuovo Mondo. Racconta Arthur Miller che nel villaggio polacco dei suoi avi, i parenti raccoglievano il denaro affinché almeno uno di loro potesse giungere in America. I soldi non potevano essere raccolti per tutti nello stesso tempo, così che soprattutto i giovani erano inviati uno dopo l’altro. Venne la volta di un giovane di dodici anni. Gli cucirono il biglietto della nave sulla camicia, ma all’esterno, sul petto, e ricamarono l’iscrizione: «Questo ragazzo deve raggiungere l’America. Vi preghiamo di aiutarlo!». Lo scrittore mostra come «la civiltà di quei tempi», quelli che precedevano la prima guerra mondiale, avesse reso possibile il viaggio oltre Atlantico di un ragazzo non accompagnato e che sarebbe diventato suo padre.
Nello stesso anno anche Gheorghe Pomean giunse a Chicago. Iniziò a inviare a casa non solo lettere, ma anche soldi. Scriveva: «Lavoro con il ferro. Quando lo tolgo dal fuoco e lo tengo, un polacco lo lavora. Quando lo tiene il polacco, lo lavoro io. Tanto è il lavoro che non sembra mai finire».