Con cadenza periodica si accende la discussione a proposito dell’opportunità di dare vita ad una formazione politica di ispirazione cristiana. A scanso di grossolani equivoci, si ha subito cura di mettere a verbale due precisazioni: non si tratterebbe di un “partito cattolico”, ma di ispirazione cristiana, programmaticamente aperto alla collaborazione di cattolici e non, ben consapevoli del principio-valore della laicità della politica e delle istituzioni; nessuna pretesa/velleità di “rifare la Dc”, della quale, a detta di tutti, radicalmente difettano i presupposti storici, politici, religiosi. Due precisazioni utili, perfino ovvie e tuttavia non sufficienti a metterci al riparo dal rischio di ricalcare esperienze pregresse. Alludo alla proliferazione, dopo la Dc, di sigle a denominazione cristiana variamente situate nel solco di essa. Sigle delle quali si sono smarriti il conto e la memoria, che non hanno lasciato una traccia esaltante, che hanno scontato una condizione minoritaria al limite dell’irrilevanza.
Entristi o partitici?
Al riaccendersi della discussione hanno concorso due episodi recenti a prima vista di segno opposto: la diffusione di un Manifesto sottoscritto da varie personalità cattoliche e che si è avvalso del qualificato contributo di Stefano Zamagni (stimato economista, studioso dell’economia civile e del terzo settore, presidente del Pontificio consiglio delle scienze sociali), che esplicitamente avanza l’idea di un partito di ispirazione cristiana (proposta affidata a un pubblico confronto); l’intervista al Corriere del card. Ruini, che suggeriva di non demonizzare Salvini e le sue ostentate esibizioni delle simbologie cristiane. Come a proporre ai cattolici e alla stessa Chiesa di non sottrarsi al dialogo con tutti gli attori politici, compresi coloro che sembrerebbero più lontani.
A ben vedere, due prospettive diverse quanto al metodo. La prima nella linea di un autonomo protagonismo politico in senso stretto del laicato cattolico che, eventualmente, prenda corpo in un partito di ispirazione cristiana. La seconda che prospetta un’interlocuzione con le forze politiche esistenti, non esclusa quella oggi accreditata come maggioritaria, cioè la Lega.
Personalmente, sarei per una terza via. Mi spiego: pur non essendo convinto che sia buona cosa dare corso a un partito di ispirazione cristiana (ci tornerò su), mi riconosco nell’idea che l’iniziativa politica competa ai laici cattolici, che a loro tocchi “prendere parte”, non limitarsi ad una malintesa neutralità/indifferenza agli schieramenti in campo, al più accodandosi passivamente ad altri.
Per converso, apprezzo la tesi di chi propone di ingaggiare un confronto-dialogo largo con gli attori politici in campo, a condizione che esso si configuri come confronto critico, severo e selettivo, che, pur mettendo nel conto, a valle, una legittima pluralità di opinioni e di percorsi politici, conduca tuttavia a porre limiti a tale fisiologico pluralismo. Più chiaramente: fissando inclusioni ed esclusioni, quelle dettate dall’unum necessarium di chi fa riferimento a una non evanescente ispirazione cristiana.
In concreto, per esempio, vedo assai problematici motivi di affinità/compatibilità tra una non nominalistica ispirazione cristiana e una militanza leghista. Una certa retorica circa l’indubbia eclisse delle ideologie storiche di matrice ottocentesca conduce all’equivoco di misconoscere le ideologie nuove, niente affatto dissolte, che devono essere vagliate criticamente.
Cinque ragioni di perplessità
Perché non mi convince l’idea di un nuovo partito di ispirazione cristiana? Non per ragioni di principio, ma alla luce di un discernimento politico concreto. Telegraficamente.
Primo: in politica contano anche i numeri. Nando Pagnoncelli (Ipsos) ci ha informato che il voto dei cattolici (compresi quelli assidui alla messa domenicale) non si discosta granché dal voto della generalità dei cittadini. Per inciso: un problema sul piano pastorale, che ha a che fare con lo iato tra fede (adulta) e vita. Quanto potrebbe raccogliere il suddetto partito?
Secondo: non solo i cattolici sono una minoranza sociale, ma essi sono politicamente (e, entro i suddetti limiti, legittimamente) divisi. Anche su questioni decisamente serie. Solo giorni fa essi si sono divisi persino nel voto che avremmo immaginato unanime sulla commissione parlamentare proposta da Liliana Segre su intolleranza e antisemitismo (un solo esempio: l’astensione di Paola Binetti con tutto il centrodestra).
Terzo: quando si immagina un partito, si ha il dovere della concretezza, compresa la considerazione delle regole della competizione politica. L’attuale legge elettorale ha base proporzionale, ma con una significativa quota maggioritaria che mette a rischio l’accesso al parlamento dei partiti minori.
Quarto: la logica immanente ai piccoli partiti li spinge a marcare artificiosamente la propria differenza. Spesso quale terreno propizio più per avventure e protagonismi personali, che non per progetti politici di respiro. Vedi da ultimo il “partito” di Renzi, dal profilo indefinito ma certo fattore di instabilità. Sicuri che la nostra democrazia e la qualità della politica traggano vantaggio da una ulteriore frammentazione e dall’endemica fibrillazione originata dai piccoli partiti?
Quinto: prima di varare nuovi soggetti, è d’obbligo interrogarsi sui partiti esistenti. Sia, in positivo, sulla loro permeabilità alle istanze personaliste e solidariste cristiane; sia, in negativo, sulla minaccia che possono rappresentare per esse. In sintesi: dare vita a un partito degno di questo nome è impresa ad alto indice di difficoltà. Esige che si accerti con cura che ve ne siano i presupposti, sia sul versante della domanda politica, sia su quello di un’offerta politica che si segnali per la sua qualità e singolarità nel “mercato” politico. Sottolineo: peculiarità politica e programmatica concrete.
I pericoli e l’etica
Nella politica estera, economica, sociale, costituzionale. Non sono sicuro che, se si va alle policies concrete, il campo sia così deserto. Grazie a Dio. Attenzione, cioè, al “perfettismo” cui spesso indulge una certa sensibilità cattolica un po’ impolitica, che si sente rassicurata dall’ancoraggio a organizzazioni di affini, del tipo “pochi ma buoni”, il “partito dei nostri”. Spesso affinità solo presunte sul piano politico. A ben riflettere, la stessa Dc fu partito plurale e inclusivo (talvolta persino troppo…), che raccoglieva un largo consenso anche (certo, non solo) in ragione della sua alternatività sistemica a quella che, all’epoca, era effettivamente la principale minaccia: il comunismo.
Penso che anche oggi, in tutt’altro contesto storico-politico, una iniziativa politica avveduta e responsabile dovrebbe interrogarsi a proposito di quale sia il versante più a rischio, la minaccia più incombente portata non già alla libertà religiosa, ma all’umanizzazione della società. E adoperarsi concretamente, politicamente, per farvi fronte. Cominciando a non dividere il fronte di chi vi si oppone.
Senza bisogno di stabilire impropri paragoni con gli anni ’20 di un secolo fa, vale tuttavia la lezione secondo la quale la divisione tra liberali, popolari e socialisti a fronte di un nemico comune non portò bene al nostro paese. Non dovrebbe esserci bisogno di dimostrare che oggi, in Italia, in Europa, nel mondo, montino altre, inquietanti minacce che prescrivono di opporvi un largo fronte unitario. Coniugando weberianamente etica della convinzione ed etica della responsabilità, come si conviene alla buona politica.
Rileviamo due estremismi e non solo uno come qualcuno vuole far credere: l’identitarismo chiuso e il solidarismo omologante. Quando ci si vuole imporre anche con leggi e minacce, con i due pesi e le due misure, con l’uniformismo asfissiante dei media e della cultura, si rischia lo scivolare verso una dittatura soft che porta al crollo della società, privata di vita, di consapevole partecipazione. La gente si sente sempre più estranea ed estraniata da tutto questo.