Le Chiese locali possono apprendere molto dal quadro complessivo del Sinodo per la regione amazzonica, senza colonizzarlo indebitamente o renderlo strumentale alle proprie esigenze.
Oscurate dal polverone sollevato dalla (vera e presunta) conflittualità tra la Chiesa cattolica americana e papa Francesco vi sono anche recezioni cordiali e costruttive del suo magistero. Robert McElroy, vescovo di San Diego in California, si conferma essere uno degli interpreti più creativi e coerenti della visione ecclesiale di Francesco, intesa come un invito che chiede di essere declinato a partire dalle condizioni effettive, quotidiane, di una Chiesa locale.
Di rientro dal Sinodo Pan-amazzonico, McElroy ha tenuto una conferenza alla St. Mary University di San Antonio (Texas) dal titolo Ravvivare il fuoco nella Chiesa cattolica. Prendendo le mosse dallo stile e dal modo di procedere che hanno caratterizzato l’intero processo sinodale sulla regione amazzonica, McElroy individua alcune caratteristiche di fondo che possono essere di rilievo anche per la Chiesa cattolica negli Stati Uniti.
Mostrando così come un evento della Chiesa universale, che mette a tema una particolare regione del mondo in maniera inedita, ossia trasversale alle normali coordinate ecclesiali (conferenze episcopali), politiche (stati) e geografiche (continenti), abbia un rilievo per ogni Chiesa locale, senza per questo appropriarsene indebitamente piegandolo a logiche che gli sono estranee.
McElroy abbozza questo quadro di una trasposizione possibile in maniera rispettosa, appunto, senza voler colonizzare in alcun modo gli esiti dell’ultimo Sinodo con questioni e interessi che ne rappresenterebbero un’indebita cattura portata avanti da istanze incapaci di elaborare da sé il proprio disegno di comunità cristiana. Anzi, è proprio riconoscendo la singolarità specifica del vissuto di Chiesa delle comunità amazzoniche che diventa possibile istruire un percorso di apprendimento da parte di Chiese che vivono la loro esperienza di fede in condizioni culturali e pastorali molto diverse.
Riconoscere il «proprio» del processo sinodale sull’Amazzonia significa, quindi, rendere giustizia al taglio dei lavori, delle riflessioni e dei risultati che esso ha saputo produrre. Riconoscimento necessario, che rappresenta anche il primo passo mediante il quale altre Chiese locali possono imparare dall’esperienza cristiana e culturale delle comunità amazzoniche.
McElroy mette, infatti, in risalto come il Sinodo abbia rappresentato un momento topico, caratterizzato da una profonda dimensione di preghiera, che si è fatto carico di una questione centrale: ossia, «come la Chiesa in Amazzonia possa proclamare, in maniera ancora più efficacie, la salvezza di Gesù Cristo nella sua pienezza, così che tutti gli uomini e le donne di quella regione, in particolare le popolazioni indigene, possano trovare nella Chiesa un vero sacramento dell’amore di Dio e della ricerca della giustizia per i poveri e per la terra».
Discernimento
Una prima forma di apprendimento può essere individuata a livello della partecipazione attiva delle comunità cristiane amazzoniche al processo di discernimento sulla configurazione delle loro Chiese locali. Questo dedicando una particolare attenzione all’ascolto di quelle voci ed esperienze che rimangono di solito escluse, o vengono costrette ai margini delle procedure ecclesiali. «Il processo di consultazione e discernimento ha dato una priorità particolare all’ascolto di quelle voci che sono generalmente escluse da una partecipazione significativa, in particolare i popoli indigeni della regione che, storicamente, sono stati vittime di discriminazione nella società e nella vita della Chiesa».
Discernere, dunque, vuol dire anche e soprattutto riconoscere le ingiustizie e le ferite inferte a una parte del popolo di Dio da parte della stessa istituzione ecclesiale: dare voce a queste storie segnate significa mettere in atto una prassi di giustizia riparativa, di cui la Chiesa è in debito verso le popolazioni indigene e le loro tradizioni. In quest’ottica, il Sinodo ha riconosciuto che non si può giungere ad alcuna decisione significativa, capace di incidere realmente sui vissuti della gente, se prima non si è messo in atto un ascolto effettivo di coloro che la Chiesa ha marginalizzato o, in un qualche modo, vittimizzato.
Quindi, il discernimento ecclesiale implica sempre una riparazione e un’effettiva purificazione della memoria comunitaria – che solo in tal modo si produce come memoria pienamente condivisa da tutti: approdando a pratiche capaci di rendere giustizia ai torti inflitti a una parte del popolo di Dio da un’altra parte di esso. Ricordando così che, in molti modi, la fraternità ecclesiale è sempre anche un legame fragile e ferito, che chiede di essere preso in carico proprio in quanto tale da tutti.
È in questo modo che, per la Chiesa intera, si può dischiudere un patrimonio della fede altrimenti inaccessibile: «Il processo di consultazione e discernimento ha rivelato una trama di profonda bellezza della fede, della devozione alla famiglia, della prossimità stretta alla terra come grande benedizione della creazione di Dio, e di una dedizione a una visione di vita buona che non è centrata sull’acquisizione di beni materiali, ma sul vivere in una relazione buona con Dio, con i nostri fratelli e le nostre sorelle, e con l’intero ordine della Creazione».
Discernere come ascolto dei vissuti di fede porta all’apertura della celebrazione liturgica verso forme che si generano nel radicamento del credere cristiano in contesti particolari di vita e di forme culturali: «Il processo di discernimento ha messo in luce l’immenso dono di grazia che l’istituzione di un rito dell’Amazzonia costituirebbe per le popolazioni indigene della regione, permettendo a esse di pregare nel loro linguaggio e di incorporare i simboli delle loro proprie culture».
Cammino sinodale
Il discernimento, dunque, è un impegno della comunità cristiana e non una gentile concessione gerarchica o una rivendicazione inappropriata del laicato cattolico. Anzi, discernere vuol dire esattamente uscire dalle pratiche di divisione che la struttura gerarchica della Chiesa può indurre sempre di nuovo, per realizzare quella realtà unitaria del popolo di Dio fatto da tutti i fratelli e le sorelle nella fede, insieme tra di loro e non come parti che si impongono gerarchicamente l’una sull’altra.
Secondo McElroy, l’esercizio del discernimento messo in atto in tutte le fasi del Sinodo Pan-amazzonico rappresenta lo snodo sul quale possono essere innestate pratiche virtuose anche per la vita della Chiesa statunitense: «La mia proposta sarebbe quella di assumere il tipo di cammino sinodale che sta caratterizzando la vita della Chiesa in Amazzonia. Un cammino fatto da una consultazione ampia e a ogni livello, con la volontà di accettare anche decisioni che possono risultare difficili, dalla ricerca di un rinnovamento in ogni settore, e dalla fede indefettibile nella continua presenza di Dio all’interno della comunità».
Tutti coinvolti, quindi, con diritto di parola e debito ascolto – e non solo gruppi rappresentativi o elitari: la sinodalità ecclesiale non sopporta e non è disponibile ad accettare alcuna assenza – neanche quelle giustificate o prodotte dall’autorità.
Un cammino effettivamente sinodale non può essere, dunque, «un processo elitario, perché la sinodalità rappresenta l’azione dell’intero popolo di Dio». Una Chiesa sinodale è, quindi, una Chiesa dove nessun credente, nessuna comunità, può venire istituzionalmente sostituito. «Tutto il popolo di Dio deve prendere parte al processo di discernimento che guida la Chiesa nella sua missione sacra di annunciare il vangelo di Gesù Cristo. Radicando l’intero processo di sinodalità nella vocazione battesimale di tutti i credenti, Francesco ritiene che “tutti i battezzati, qualsiasi sia la loro posizione nella Chiesa, o qualsiasi sia il livello di istruzione nella fede, sono attori attivi dell’evangelizzazione. Sarebbe insufficiente prospettare un progetto di evangelizzazione portato avanti solo da professionisti, mentre il resto dei fedeli non sarebbero altro che dei recettori passivi”».
Una Chiesa in cammino sinodale è sostanzialmente una Chiesa che sa ascoltare, e che vuole imparare a farlo in ogni occasione e circostanza – afferma McElroy, mentre fa sue le parole di papa Francesco: «Una Chiesa sinodale è una Chiesa che ascolta, una Chiesa che si rende conto che ascoltare è molto più che il semplice sentire quello che gli altri dicono. Si tratta di un ascolto reciproco nel quale ognuno apprende qualcosa».
L’apprendimento e la pratica dell’ascolto così inteso, rappresenta un’urgenza impellente per la Chiesa cattolica statunitense che «non può tirarsi indietro davanti alle questioni difficili o davanti a un dialogo spinoso».
Missionarietà
Altrettanto urgente è per McElroy una decisa estroversione della Chiesa cattolica americana che, da troppo tempo oramai, appare essere raggomitolata su se stessa e preoccupata prevalentemente di sé – mostrando così una mentalità anti-evangelica, da cittadella assediata, che sta paralizzando tutta la comunità cattolica, congelata nello specchio incantato del proprio sguardo che si dirige quasi esclusivamente verso se stesso.
Questa condizione del cattolicesimo statunitense ha diverse cause e proprio per questo, secondo McElroy, è importante riconoscere dapprima quelle di cui è responsabile la Chiesa stessa. Se è vero che si può registrare una crescente aggressività verso di essa, è anche vero che negli Stati Uniti quella aggressività trova la sua ragione, in primo luogo, nel «fallimento dilagante della Chiesa e dei suoi leader rispetto al riconoscimento dell’enormità del crimine delle violenze e abusi sessuali da parte del clero – in particolare verso i minori». A ciò si affiancano i diffusi processi di secolarizzazione della società statunitense, con il conseguente allontanamento delle generazioni più giovani dalla comunità ecclesiale.
Ma questa condizione non può giustificare il ripiegamento difensivo su di sé e un atteggiamento aggressivo del cattolicesimo verso i cambiamenti culturali in atto nella società in cui la Chiesa cattolica americana vive quotidianamente. Per liberarsi da questa «ossessione» di sé, la Chiesa statunitense può imparare dall’apertura missionaria che ha contrassegnato l’intero Sinodo Pan-amazzonico. «Il processo di discernimento che cerca di portare avanti un discepolato veramente missionario racchiude il potenziale per liberare la Chiesa degli Stati Uniti dalla potente presa che la mentalità da cittadella assediata, da un lato, e dalla cultura della conservazione, dall’altro, hanno su di essa.
Il codice «Benedetto», si tratti dell’opzione o di un ben determinato immaginario ecclesiale, non corrisponde alla destinazione missionaria per cui si dà un discepolato cristiano: «La visione di una Chiesa piccola e pura è diametralmente opposta all’impulso missionario che è al centro della vita cristiana fin dai tempi dei primi apostoli». Infatti, «il discepolato missionario, per sua natura, guarda verso fuori, oltre se stesso, e rifiuta di lasciarsi intrappolare in schemi oramai datati di azione ecclesiale e di processi comunitari di decisione».
Partecipazione, corresponsabilità e ospitalità
Il Sinodo è stato una messa in atto dell’edificazione della Chiesa basata sulla partecipazione dell’intero popolo di Dio, riconosciuto all’altezza della responsabilità della fede – che non può essere avocata a sé da parte del ministero presbiterale ed ecclesiale, spogliando conseguentemente la comunità cristiana della sua dignità discepolare. Il «clericalismo» è esattamente questa riduzione della fede di tutti a mera esecuzione del desiderio di potere di alcuni.
Unica correzione possibile a questa tendenza diffusa è una «visione teologica e una realtà ecclesiale che inquadra con decisione il ministero ordinato all’interno di una Chiesa partecipativa e corresponsabile dove i laici, uomini e donne, sono messi nella condizione di esercitare potere, rispettati, ben formati e apprezzati». Una Chiesa così attuata diventa pratica quotidiana di legami della fede che non possono essere mai senza gli altri, riconoscimento della sua «vocazione alla complementarietà nel senso più profondo, comprendendo che i ricchi doni dello Spirito chiedono di essere usati largamente e sapientemente nella comunità ecclesiale e che continuare schemi strutturali e culturali che inibiscono questa apertura e diffusione vuol dire opporsi alla grazia di Dio».
Solo una Chiesa che vive così le sue relazioni sarà in grado di corrispondere al comandamento dell’ospitalità che le è ingiunto ogni giorno dalla memoria evangelica dei gesti e delle parole di Gesù. Il cui ministero «è preminentemente un ministero di invito, accoglienza amorosa e guarigione». Non altro deve essere il ministero della Chiesa: capace di ospitalità incondizionata esattamente perché estraneo a ogni forma di moralismo giudicatorio.
Disposizione, questa, che terrebbe ferma la differenza cristiana della comunità credente rispetto alle forme ambiente del vivere associato, esattamente nel momento stesso in cui la Chiesa abita quotidianamente la comune socialità umana. Mentre, invece, il «grande pericolo è che la nostra vita ecclesiale sta diventando come la nostra vita politica: polarizzata, distorta e tribale. Questa è la ragione per cui un profondo e ampio processo di dialogo sinodale, come possiamo apprenderlo dall’ultimo Sinodo, all’interno della comunità cattolica negli Stati Uniti potrebbe dare forma a un diverso cammino che ci porta tutti in avanti. (…) In tal modo, eviteremo non solo ulteriori intrusioni degli elementi più negativi della vita politica del nostro paese nella vita della Chiesa, ma potremmo contribuire alla cura della crisi istituzionale, morale e politica della nostra nazione disegnando le coordinate di una politica che cerca armonia e il bene comune».
Insomma, vi è molto da apprendere dal Sinodo Pan-amazzonico: per il bene e la fraternità di molte Chiese locali – non solo quella degli Stati Uniti, come mostra McElroy nella sua creativa recezione e restituzione del ministero di Francesco, ma anche per la nostra Chiesa italiana che non sa poi proprio così bene dove andare, né come assumere fecondamente le indicazioni messele in mano da papa Francesco.