Vergente mundi vespere, Uti sponsus de thalamo, Egressus honestissima Virginis Matris clausula. |
Volgendo il mondo al vespero, come sposo dal talamo, uscisti dal castissimo grembo di Madre Vergine. |
L’Avvento, come prima tappa del percorso dell’anno liturgico, appare di per sé come un invito ad avere davanti un’immagine guida che riassuma un po’ tutto il senso da dare alla vita, che faccia un po’ da prospettiva per raccogliere i frammenti dell’esperienza quotidiana dentro un qualche disegno che eviti una sensazione frustrante di dispersione e di smarrimento.
Quest’anno mi è tornato alla mente lo splendido inno dei Vespri che inizia con il verso Conditor alme siderum (Almo creator degli astri), cadenzato sulla linea quieta ed essenziale della melodia gregoriana che bene introduce nell’atmosfera vespertina per la quale è previsto.
Ricordo ancora l’emozione provata ascoltando quella musica in una chiesa del Bangladesh. La strofa riportata in esergo fissa lo sguardo sulla sera del mondo, alludendo, credo, allo sfasciarsi delle cose di cui è piena la letteratura apocalittica che la liturgia del tempo ci offre, anche se il linguaggio dell’inno è più sobrio e, più che terrore, ispira un vago senso di malinconia.
Alla ricerca di immagini feriali, avevo in un primo tempo sostato su quella del fumo, di cui pure parla Isaia quando scrive: «i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito… ma la mia salvezza durerà per sempre» (Is 51,6). I profeti accompagnano sempre l’annuncio del disastro con l’invito a sperare.
E il fumo mi ha ricordato che questa è una stagione in cui si bruciano rovi e sterpaglie, foglie morte e rami secchi, ma che poi la cenere (e tornerà il segno all’inizio della primavera!) serve pur sempre a fertilizzare e a purificare, e che dagli stracci si ricava la carta. Sempre, dunque, la duplice valenza del segno, una legge della creazione, e della vita, da non dimenticare mai.
I tornanti
Poi però l’inno citato mi ha attraversato la mente, ha risvegliato altre figure. Una sola parola può generare un’immagine, con le sue suggestioni.
Il verbo d’attacco mi ha affascinato: il latino vergere implica un senso di “direzione”, in avanti, ma anche un “avvolgersi”, quello del mondo che si avviluppa nel suo vespro; il termine rimane ambiguo, però, perché vuol dire pure “declinare”, “abbassarsi”, ma anche “estendersi”.
Alla fine mi è parso che l’immagine più adatta a riassumere tutto fosse quella del tornante. Il tornante sale, e chi lo percorre per la prima volta (ogni anno, o giorno, che inizia è una prima volta) sa quanto gli sta dietro, ma non vede quello che gli sta davanti. Ad ogni tornante c’è una sorpresa: quella amara quando si scopre che la salita continua e si fa sempre più faticosa (per chi va a piedi, ovviamente!), e quella esaltante di un panorama sconfinato che si apre all’improvviso.
La metafora è trasparente: vivere il cammino d’Avvento come una strada a tornanti significa che il tempo dell’attesa è non solo il tempo della speranza, ma anche il tempo dell’incertezza, con la quale occorre saper convivere senza agitarsi.
Ancora, il tornante, come dice la parola stessa, non è solo una curva, ma è una strada che “ritorna”, anche se ogni volta un po’ più su. E qui mi è venuto alla mente un sermone di Aelredo di Rievaulx per la festa dei Santi, dove il cammino della vita è letto sullo schema dei sette giorni della creazione, intersecati con le Beatitudini e i sette doni dello Spirito Santo. È uno splendido itinerario per programmare l’esistenza.
Ne colgo solo le tappe essenziali, esemplificate nelle Beatitudini: la povertà come coscienza della propria miseria, la mitezza come accoglienza benevola, l’afflizione come scuola di compassione, la fame di giustizia da preservare nella prosperità come nell’avversità, la misericordia come carità cordiale, la chiarezza di un cuore semplice per vedere bene persone e cose, l’azione per la riconciliazione e la pace. E su tutto il percorso il segno della fatica e della persecuzione (l’ultima beatitudine), inevitabile per chi si mette a salire quel “monte” che è Gesù.
E qui riappare l’immagine del tornante, perché Aelredo, con un ribaltamento spettacolare, legge i giorni della creazione all’incontrario, facendo osservare che essi cominciano alla sera e terminano al mattino! La “sera” è ciò che nella vita sperimentiamo come negativo, come sofferenza, come parzialità e incertezza, ma da lì bisogna passare, da lì bisogna partire per raggiungere il “mattino” che dà inizio alla luce piena. Dò solo un esempio, dal Sermone 27,12, quello del primo giorno legato alla prima Beatitudine, in cui è iscritto lo schema che regge tutta la riflessione:
«Questo è il primo giorno della creazione e della nostra ri-creazione, giorno nel quale, per comando del Signore, sorge per noi la luce (Gen 1,3), cioè l’umiltà che nasce dalla conoscenza di noi stessi. Questa è, infatti, la luce che separa il giorno dalla notte, le tenebre dalla luce, la giustizia dall’iniquità, gli eletti dai reprobi, chi sarà salvato da chi sarà dannato. Questo giorno comincia dal vespro, cioè dalla considerazione della nostra debolezza, e si protende verso il mattino della nostra nuova rigenerazione. E, come l’inizio di ogni peccato è la superbia (Sir 10,15), così dall’umiltà inizia ogni giustizia (cfr. Mt 3,15), e questo è il primo gradino della salita verso il regno dei cieli. Beati allora i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3)».
La sera
Giorno dopo giorno, tornante dopo tornante, la vita si ri-crea, la vita sale. Pare che un punto di passaggio cruciale, una curva necessaria e decisiva sia proprio la “sera”, di cui parla l’antico inno d’Avvento, quella che ha fatto scrivere a un poeta dei nostri tempi: «Cosa sarebbe questa vita / se non ci fosse la sera? // Se il giorno cadesse di colpo / nella notte nera?» (E. Guillevic). Questo avviene nelle aree equatoriali del pianeta, non da noi, ove, quanto più si va a nord, tanto più il passaggio dalla luce al buio, e viceversa, si allunga e si dilata.
C’è una grazia in questo entrare graduale nella notte: c’è il tempo per guardare all’indietro facendo il bilancio della giornata, e per proiettarsi in avanti cercando di governare interrogativi e paure, tempo per perdonarsi sconfitte e fallimenti, e per render grazie per quanto e quanti ci hanno dato nelle ore gioia e conforto.
L’Avvento allora ci può aiutare a vivere la fatica e l’incertezza del tornante, a vivere la pausa meditativa della sera, soprattutto con la consapevolezza che questa sera dell’esistenza, almeno una volta all’anno, nel percorso verso un nuovo mattino attraversa la luce abbagliante di una Notte Santa! Paradosso dei paradossi, e non il solo, perché – come canta la strofa dell’inno posta in esergo – in questa sera del mondo balza fuori «come sposo dalla stanza nuziale, come un prode che percorre la via» quello che per il Salmo 18(19),6 è il sole, e che per noi è Gesù, il quale, con un altro paradosso che tiene accesa la fede nell’impossibile, nasce per giunta da un grembo verginale!
Nel sermone citato, Aelredo paragona Gesù a un monte, e in questa figura prende senso l’immagine del tornante, col suo miscuglio di fatica e di speranza, di frustrazione e di scoperta: si sale, ma verso di lui! A sorpresa, ma ancora pensando alla salita, Aelredo osserva che «Zaccheo, basso di statura, desiderava vedere Gesù, ma poiché gli mancava la capacità di salire su un monte, trovò una pianta di sicomoro, adatta cioè alla sua poca altezza». E conclude: «Chi dunque desidera vedere Cristo, se è alto, salga su un monte, per vederlo nella sua gloria; se è basso, salga su un sicomoro, per vederlo crocifisso» (Sermone 27,3).
Alla fine non importa sapere quale tornante si è raggiunto: conta il continuare a salire. Aelredo, nella sua logica di compassione, ricorda che la salita non è riservata ai forti, che a tutti è aperta una possibilità, anche a chi è in ogni senso “basso” o “piccolo”.
In fondo, non è neanche necessario salire su un albero per vedere Gesù, perché su quel legno lui è sceso fino a noi. Nel mondo che “si volge” verso sera, infatti, c’è pure lo “sprofondare” del Figlio dell’uomo nel buio della morte. Lo si capiva quando, un tempo, si mettevano crocifissi ai tornanti di montagna, quasi a ritrovare, guardando lui, la forza di proseguire, il coraggio di guardare “oltre”.
Si può vivere dunque il tempo d’Avvento non tanto con l’occhio sui disastri apocalittici, che peraltro il mondo e la storia non ci risparmiano, quanto piuttosto leggendo i giorni alla scuola più quotidiana e feriale della fragilità e dell’incertezza, percorrendo il cammino nella logica del tornante, grati per i passi compiuti, superando la paura per ciò che sta davanti, sempre comunque con lo sguardo fisso a ciò che può nascere da ciò che muore. Come ha scritto Guillevic: «Il vespro scommetterebbe / che è lui / a far la notte gravida / della veniente aurora». Capirlo, ricordarlo, farne la base del nostro cammino: forse è qui la lezione e il fascino segreto del tempo di Avvento.