La notizia era attesa, ma una se pur debole speranza ancora aleggiava tra le viti e gli ulivi della piana di Cremisan. Una battaglia giuridica che durava da quasi dieci anni – da quando nel 2006 era comparso il progetto della costruzione di un Muro di separazione fra i territori d’Israele, la cittadina di Gilo, e quelli palestinesi con l’insediamento di Beit Jala – si è conclusa con la sentenza definitiva dell’Alta Corte che ha respinto tutti i ricorsi contro la determinazione del governo ad andare avanti con i lavori, ricorsi che avevano ottenuto il pieno sostegno del patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal attraverso la Society of St. Yves, organismo impegnato nella difesa dei diritti umani.
Nel mese di luglio erano già in azione i bulldozer per abbattere le prime piante lungo il tracciato del percorso del Muro, fermamente voluto dai generali dell’esercito israeliano “a scopo di sicurezza”, mentre i ricorsi giacevano ancora sui tavoli della Corte.
Beit Jala si trova a poca distanza da Betlemme, ma gli sforzi per un percorso alternativo non riguardavano solo la vicinanza ad un luogo simbolo di Terra Santa: sono 58 le famiglie palestinesi, di religione cristiana, che saranno private di una fonte di reddito agricola (circa 300 ettari di coltivazioni) e messe nell’impossibilità di far frequentare l’attigua scuola salesiana ai loro figli, dal momento che verranno a trovarsi da una parte e dall’altra del Muro.
Sono più di 450 i ragazzi, cristiani e musulmani, ospiti della scuola cattolica – sorta nel 1960 e che comprende scuola dell’infanzia ed elementare cui vanno ad aggiungersi attività pomeridiane ed estive e sostegno ai bisogni educativi speciali – che si è vista confiscare una buona parte dell’area circostante (all’interno dei confini di Gerusalemme e quindi per il diritto internazionale, territori occupati, zona C della Cisgiordania). Il Muro comporterebbe la drastica riduzione del terreno delle suore, bloccando di fatto ogni possibilità di ampliamento della scuola o la realizzazione di attività didattiche all’aperto e lascerebbe gli edifici salesiani quasi completamente privi della vista anche del cielo …
Nella zona si erano recati ad inizio gennaio anche i delegati del Coordinamento dei vescovi europei e nordamericani nel corso della loro tradizionale visita in Terra Santa. Dal 7 al 14 gennaio un viaggio che li ha condotti anche nella striscia di Gaza e, prima di sostare a Betlemme, una tappa il 10 gennaio a Beit Jala per portare conforto a famiglie e suore. Ma i vescovi hanno poi fatto rotta verso Amman, in Giordania, per incontrare i rifugiati iracheni e le ONG cristiane che lavorano al loro fianco.
Mons. Oscar Cantu, vescovo di Las Cruces (Nuovo Messico) aveva dichiarato al ritorno negli Stati Uniti: «E’ stato molto triste vedere la situazione attuale in cui le persone hanno le loro terre confiscate e gli alberi sradicati. Questo è un segno di qualcosa di molto più grave. Sembra essere una diminuzione del diritto dei palestinesi a vivere lì e la mancanza di un riconoscimento del loro legittimo diritto di essere presenti sia all’interno dello stato di Israele o nei territori palestinesi».
I 12 vescovi, provenienti da Europa, Sud Africa e Nord America, a Cremisan avevano incontrato Nahleh Abu Eid, 76 anni, cui avevano già sradicato 15 ulivi centenari e perduto l’accesso alla parte rimanente dei suoi terreni agricoli: «La situazione non è semplicemente politica, ma è questione della vita delle persone e della loro dignità», ha detto Cantu. E ha concluso: «Hanno perso la speranza».
Un briefing con l’avvocato cattolico Raffoul Rofa della Società di St. Yves ha fatto luce sul fatto che, in teoria, i proprietari terrieri devono essere autorizzati a raggiungere la loro terra per raccogliere le loro olive attraverso una serie di porte sorvegliate, ma esperienze analoghe hanno dimostrato che un tale sistema funziona raramente come dovrebbe.
Il vescovo sudafricano Stephen Brislin di Città del Capo commentava: «Provenendo dal Sud Africa dell’apartheid mi rendo conto che le persone coinvolte in questa operazione non sono di per sé crudeli, piuttosto non sapevano cosa stava succedendo: sono parte di un sistema e non comprendono l’ingiustizia e l’oppressione causate».
«La forza militare non può darci la pace. La cosa più importante è la preghiera. Il mondo sembra non essere in ascolto, ma continuiamo le nostre preghiere, e questo è un messaggio molto importante. Con la vostra fede con la preghiera possiamo fare una differenza, siamo in grado di fare un cambiamento», aveva aggiunto il patriarca Twal.
Nessun commento