Padre Gabriele Ferrari, già superiore generale dei Saveriani, suggerisce sette piste perché ogni comunità cristiana diventi missionaria.
Nell’orazione introduttiva della liturgia per la festa di san Francesco Saverio, si chiede che «ogni comunità cristiana arda dello stesso fervore missionario» del santo patrono delle missioni e dei missionari. Questo è lo scopo di questa riflessione e la preghiera che facciamo nostra all’inizio di questa meditazione: che, per l’intercessione del Saverio, possiamo rinvigorire lo spirito missionario.
In questa festa di san Francesco Saverio vorrei riflettere insieme con voi sulla missione ad gentes e, attraverso di essa, sulla missione tout court. Se è vero che la missione ad gentes è «il paradigma di ogni azione pastorale della Chiesa», come ha scritto papa Francesco il 22 ottobre 2017, indicendo l’ottobre missionario straordinario di quest’anno, ripetendo quello che avevano detto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Allora è bene che ci chiediamo che cosa è e che cosa ci propone metodologicamente la missione ad gentes oggi. Siamo in un’epoca di cambiamenti o – come ama dire il papa Francesco – in un cambiamento di epoca che coinvolge anche l’azione della Chiesa.
Anche la missione ad gentes ha sentito l’impatto dei cambiamenti sociopolitici, rapidi e profondi, di ieri e di oggi, dei quali appena riusciamo a renderci conto e delle novità ecclesiologiche introdotte – e non ancora del tutto assimilate – dal concilio Vaticano II. Su questi fattori di cambiamento non intendo fermarmi perché sia gli uni che le altre dovrebbero essere noti e chiederebbero comunque un tempo che non abbiamo.
L’animazione missionaria
Voglio invece intrattenermi con voi sull’animazione missionaria, operazione necessaria, dato che la storia ci ha portato a pensare che la missione sia soltanto dei missionari che vanno in Africa, in America Latina o in Asia con la conseguenza di credere che Chiesa e missione siano due realtà parallele, mentre esse sono la stessa cosa: dove non c’è tensione missionaria, non c’è neanche Chiesa. Oggi è vero anche qui da noi, pur in circostanze di tempo, luogo e cultura diversi, ciò che profeticamente dicevano della Francia Yvan Daniel e Henry Godin, autori di France, pays de mission settantasei anni fa (1943). È sotto gli occhi di tutti che dobbiamo riprendere a evangelizzare anche le nostre contrade.
Spesso mi sono sentito dire: «Che bisogno c’è di andare in Africa? l’Africa ormai è qui». Sì, è vero. Ma proprio perché dobbiamo farcene una ragione, è necessario che ce lo ricordino quelli che hanno assunto come ministero specifico la missione ad gentes. Cambiare metodo, passare da «una pastorale di semplice conservazione ad una pastorale decisamente missionaria» (Evangelii gaudium 15) e, nello stesso tempo, da una pastorale del fare a una previa pastorale dell’essere.
«Io sono una missione», dice il papa (EG 273) che non si stanca di ripetere che una Chiesa che non si sente inviata e non diventa una Chiesa in uscita (EG 20), estroversa e spinta dalla dinamica dell’esodo e del dono del mistero pasquale a raggiungere tutti i luoghi e tutte le situazioni per annunciarvi la lieta notizia, inevitabilmente si ripiega su se stessa, si ammala di un attivismo che copre il vuoto interiore della sua azione e degli stessi evangelizzatori.
Per questa ragione mi permetto di ricordare con voi alcune – sette per la precisione – caratteristiche di metodo della missione ad gentes.
Non pensate che io sia un maestro, sono solo un umile ma felice testimone di un modo di vivere il vangelo e il mandato missionario di Gesù che mi ha fatto nascere in cuore il desiderio di andare a farlo conoscere «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Essere missionario, infatti, è condividere la grazia e la speranza che io stesso ho ricevuto, continuare a imparare che cos’è essere cristiano e insieme veder nascere con stupore e senso d’adorazione il «mistero nascosto da secoli in Dio» (Ef 3,9) e ora realizzato sacramentalmente nella Chiesa in mezzo ai popoli.
Paolo VI affermava che «evangelizzare (e la missione dell’evangelizzazione è la spinta energetica) è la vocazione propria e l’identità più profonda della Chiesa» (Evangelii nuntiandi 14) e insieme il compito, o meglio, il bisogno di ogni comunità cristiana e di ogni battezzato, pur nei modi propri di ogni tempo e di ogni luogo. Dire che la missione ad gentes è «il paradigma di ogni azione della vita ecclesiale», non vuol dire dimenticare la realtà di qui per copiare quello che si fa in altri luoghi e, meno ancora, andarsene di qui per fare missione altrove. È la dinamica e lo stile della missione ad gentes che dobbiamo assumere, la spiritualità e la metodologia proprie della missione.
Ricuperare la categoria Chiesa-popolo di Dio
La prima esigenza da mettere in conto se vogliamo procedere, come il papa chiede, a quella «conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno» (EG 25) è di ricuperare la figura originaria della Chiesa, quella voluta dal suo Fondatore, come essa è stata ripristinata dal concilio Vaticano II e cioè la Chiesa intesa come «popolo di Dio» (Lumen gentium cap. II).
Questa è stata la grande svolta del Concilio, una novità che è… antica come la rivelazione: «Voi siete – dice l’autore della prima lettera di Pietro ai neofiti di allora – stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9). La Chiesa è il popolo messianico, scelto e inviato da Dio nel mondo, un popolo che vive nella storia e «che ha come fine il regno di Dio, come condizione la libertà dei figli e come statuto il precetto della carità» (Prefazio comune VII).
Purtroppo, la figura della Chiesa «popolo di Dio» è presto caduta in eclissi, sostituita un’altra figura, la Chiesa «mistero di comunione». La paura che «popolo di Dio» favorisse l’insinuarsi nella Chiesa di una forma di democrazia (potere del popolo, appunto) che scardinasse la struttura gerarchica della Chiesa, fece optare il Sinodo straordinario del 1985 per la categoria «Chiesa mistero di comunione».
Definizione sicuramente legittima, ma che stempera e addirittura fa smarrire la tensione missionaria propria del popolo di Dio in favore di una Chiesa compatta, omogenea e purtroppo introversa a difesa della propria comunione, tanto che siamo ritornati al binomio «comunione e missione».
Per rilanciare oggi il senso della missione della Chiesa e favorire quella conversione missionaria che Francesco chiede alla Chiesa, papa Bergoglio ha optato di ritornare alla categoria popolo di Dio riprendendo l’ecclesiologia della Lumen gentium (EG 17).
Dire che la Chiesa è popolo di Dio implica l’abbandono di ogni forma di clericalismo e la ripresa di quella fondamentale uguaglianza che viene dall’elezione ed è confermata nel battesimo, la ripresa di quell’ontologia della grazia che precede ogni distinzione all’interno del popolo di Dio.
Dall’ontologia della grazia deriva la corresponsabilità di tutti i battezzati nella missione della Chiesa non più affidata a un corpo specializzato e alla gerarchia (EG 120) ma assunta personalmente e comunitariamente dal popolo di Dio. Dalla stessa corresponsabilità di tutti i battezzati derivano la sinodalità e la missionarietà del popolo di Dio e dei singoli fedeli. Per questo è urgente far uscire il popolo di Dio dalla passività che ha dispensato i battezzati dal prendere parte alla vita e alla missione della Chiesa.
Ribadiamo che missionarietà e sinodalità non sono novità portate da papa Francesco, sono impegni iscritti nella natura stessa della Chiesa, popolo di Dio. E allora, perché tanta fatica a coinvolgere i fedeli? Perché da parecchi secoli la missione della Chiesa è stata monopolizzata dal clero e giustificata dalla spartizione della Chiesa in «duo genera christianorum», come dice il Decreto di Graziano (1139-1142).
Solo ricuperando la categoria Chiesa popolo di Dio e il sacerdozio comune del popolo sacerdotale, regale e profetico, i fedeli sentiranno nuovamente il diritto – prima ancora del dovere – di partecipare alla «dolce e confortante gioia di evangelizzare» (EG 10). Tutti i battezzati, infatti, dovrebbero sapere di essere stati non solo chiamati alla missione ma anche attrezzati per essa dallo Spirito Santo con i doni/carismi «per il bene di tutti» (1Cor 12,7), il primo dei quali è quel sensus fidei (Lumen gentium 12) che – dice il papa – è dato proprio in vista della missione evangelizzatrice e che invece è rimasto per troppi anni solo scritto nella costituzione dogmatica sulla Chiesa.
L’annuncio della gioia del Vangelo
Ma la Chiesa sarà missionaria solo se offrirà al mondo l’euaggélion, cioè un messaggio di gioia, che rallegra i poveri, gli emarginati, quelli che non hanno più speranza, come ha detto Gesù nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,17-19).
Dopo anni di magistero insistente sui temi morali (certamente necessari!), la Chiesa deve far risuonare al mondo l’annuncio della misericordia e della tenerezza di un Dio che ama l’uomo, che lo cerca se si perde e fa festa quando lo ritrova. Questo noi vediamo nella gioia dei neofiti nella missione ad gentes.
Non vi dico cose nuove e non c’è nulla di nuovo in ciò che Francesco ha detto e dice, eppure tutti abbiamo notato una freschezza evangelica che rende attraente il messaggio: «I cristiani – dice il papa – hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (EG 14). Solo così la Chiesa, intesa come popolo santo di Dio, si presenterà come una comunità attraente, un’«oasi di misericordia» (Misericordiae vultus 12), dove tutti possano sentirsi «accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG 114), accolti da una Chiesa che non è una dogana dove si controllano i documenti di chi entra, perché non è un posto di blocco, ma la casa paterna, dalle porte aperte, dove c’è posto per tutti con la loro vita faticosa (EG 47).
La Chiesa ricca di ministeri
Dire che la Chiesa è un popolo, non significa dire che essa è una massa di gente anonima, ma una famiglia (in ebraico am JHWH, dice popolo come parentado di Dio), dove ciascuno ha il suo volto, il suo nome, il suo ruolo e la sua professione. E in questa famiglia di fratelli ognuno si prende la propria responsabilità.
Nella missione ad gentes è esperienza immediata che i cristiani sono pronti a mettersi al servizio della comunità in diversi servizi o ministeri da quelli di carattere cultuale a quelli caritativi, da quelli pedagogici a quelli logistici e comunitari, tutti attorno al ministro ordinato che ha il compito di coordinarli per il bene di tutti. Non sono ministeri ordinati, ma importanti, essenziali e insostituibili. Il missionario non può fare altrimenti! Nella missione ad gentes si vede realizzarsi quell’ideale che è stato scritto in un documento dell’episcopato francese nel 1973: «una Chiesa tutta carismatica e tutta ministeriale».
Una Chiesa che attiri con la testimonianza
Il popolo di Dio ha come primo inderogabile impegno il primo annuncio, la parola della salvezza, l’annuncio di Dio che ci ama fino a mandare il suo Figlio per salvarci e farci vivere la pienezza dell’umanità. Questo annuncio, offerto da una Chiesa caratterizzata dalla gioia che le viene dalla missione, è ciò che si aspetta oggi la gente. Essa ha bisogno di un orientamento, un senso per la vita in un tempo di confusione; essa ha bisogno di trovare ascolto, accoglienza, misericordia e tenerezza. Questo è il primo annuncio che deve essere offerto prima con i gesti che con le prediche.
Bisogna andare al di là della «nuova evangelizzazione», segno caratteristico della missione del tempo di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, per offrire «la Bellezza che salverà il mondo» (Dostoevskij). Il mondo oggi attende un annuncio e insieme una comunità che irradino gioia e attraggano coloro che la incontrano: «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione» (EG 14).
Questa parola del Papa Benedetto ripresa con insistita frequenza da Francesco, ha “sconvolto” la tradizionale missione ad gentes. Essa sembra squalificare il nostro fare. Non è vero, essa punta all’anima della missione: non sono più le grandi opere che attirano, ma la testimonianza della gioia dei cristiani che mostrano di aver trovato la gioia e la piena umanizzazione nel vangelo del Signore Gesù.
La forza e la bellezza della Parola
Dall’urgenza del primo annuncio, viene l’impegno della Chiesa missionaria di aprire a tutti i fedeli i tesori della Parola di Dio e di permettere ai fedeli di leggerla, gustarla e trasformarla in vita vissuta.
Senza pretendere dei metodi rigidi, è importante far giungere i fedeli alla lettura spirituale della Parola, quella che si chiama comunemente la lectio divina.
È molto bello vedere i catecumeni e i neofiti desiderare di leggere la Parola, e di rendersi conto che essa è la sorgente da cui sgorga la ricchezza del catechismo, una specie di Roadmap per la vita cristiana e per la vita tout court, parola che aiuta a interpretare la propria storia alla luce della storia della salvezza. Compito molto impegnativo per i pastori, imprescindibile tuttavia, quello di aprire e far conoscere la Scrittura, compito che forma insieme i pastori e il popolo di Dio.
Evangelizzazione attraverso il dialogo
La missione ad gentes ci insegna che oggi la Chiesa nella sua azione evangelizzatrice deve cambiare il passo: la proclamazione della Parola deve ormai passare attraverso il dialogo. Chi annuncia il Vangelo non può più continuare a considerarsi il maestro che insegna, ma si dovrà fare amico dell’altro e mettersi a servizio della verità e dell’altro per poter condividere con lui la sua fede e la sua visione della vita.
Anche qui la Chiesa si ritrova davanti una società non più cristiana (la cristianità) con la quale deve fare i conti mettendosi in paziente e cordiale ascolto per aprire con essa il dialogo.
Le nostre comunità nelle città, ma anche fuori di esse, sono ormai comunità poliedriche, composte di elementi non omogenei dove si trovano gomito a gomito cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, persone di religioni diverse.
Finito ogni complesso di superiorità, ci sentiamo, come gli altri, cercatori di Dio, che devono fare i conti con l’alterità culturale e religiosa ed evangelizzare in umiltà, senza pretese di assolutezza, ma riconoscendo di essere noi stessi alla ricerca delle tracce di Dio ovunque nella storia e nelle religioni.
Questa che, di primo colpo, potrebbe sembrare una de-missione, è invece una situazione nuova che può rivelarsi un’opportunità che permette alla Chiesa missionaria di ripartire con un passo più evangelico nel rispetto e nell’umile ascolto dell’altro. Questa rivoluzione del dialogo è un dono di Paolo VI con l’enciclica Ecclesiam suam (1964), ha tracciato per il Concilio il cammino della missione: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67).
Il dialogo è l’espressione dell’amore della Chiesa per il mondo, non ritenuto più il nemico della Chiesa, ma il partner di una relazione di amicizia che la Chiesa cerca di aprire e intrattenere con tutti nella sincerità della ricerca della verità di Dio.
Da parte dei cristiani legati alla tradizione, si teme che il dialogo comprometta la proclamazione del vangelo e l’offerta del battesimo. Noi missionari siamo coscienti che ci sono ambienti in cui l’evangelizzazione non può portare al battesimo e alla entrata nella Chiesa (cf. Redemptoris missio 10). Non per questo verrà meno la proclamazione del Vangelo, ma, attraverso la testimonianza dei valori evangelici, noi possiamo far maturare la fede e la pratica religiosa dei non cristiani.
Quello che non è lecito è abbandonare questi fratelli che non possono diventare cristiani, perché anch’essi sono fratelli con i quali possiamo vivere quei «valori del regno» che anche Gesù ha promosso nella sua evangelizzazione. E questi sono quei valori che lo Spirito Santo ha seminato nella storia prima dell’arrivo dei missionari ai quali tocca di scoprirli laete et reverenter (con letizia e senso di adorazione, Ad gentes 11), coltivarli e portarli a maturazione.
Come Gesù, anche noi possiamo dire: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv 10,16) e affidare allo Spirito di Gesù che ha strade che noi non conosciamo (cf. Gaudium et spes 22) per farle giungere al mistero pasquale.
Certamente il nostro obiettivo inderogabile è far entrare tutti nella comunione con Dio nella Chiesa, anche se qualche volta l’ordine dei tempi si rovescia, secondo il principio scolastico: primum in intentione, ultimum in executione.
Una Chiesa povera per i poveri
Ultima caratteristica della missione ad gentes è prendersi cura dei poveri, anzi fare della Chiesa «una Chiesa povera per i poveri» (EG 198). La realtà del mondo di oggi produce squilibri, problemi, conflitti, ingiustizie e «inequità» di cui siamo spettatori e testimoni e che, in certi casi, hanno le radici nel nostro mondo, a casa nostra.
La missione deve farsi carico di queste realtà senza dimenticarle o evadere da esse, cercando anzi di sanare le cause da cui esse provengono. La missione non ci consente di essere una Chiesa dei potenti, una Chiesa che viene a patti con chi opprime i poveri e li impoverisce.
L’opzione preferenziale dei poveri è parte della nostra vocazione cristiana della missione ad gentes e oggi della missione tout court. Dobbiamo metterci dalla parte dei poveri, prenderne le difese e assumere uno stile di vita rispettoso dei più poveri, limitarci nelle esigenze e non permetterci un uso spregiudicato dei nostri mezzi materiali.
La realtà della crisi ecologica e di quella economico-finanziaria che impoveriscono e distruggono il mondo in questo tempo di globalizzazione con le enormi disuguaglianze o inequità nel mondo, ci chiedono di assumere uno stile di vita che tenga conto di questa realtà e di assumere quell’«ecologia integrale» che il papa continua a suggerire.
Solo così la Chiesa sarà missionaria e ritroverà la sua forza profetica, oggi messa in crisi a causa non solo degli scandali morali che affliggono la Chiesa, ma anche a causa della collusione con quei poteri che ignorano i poveri e condannano milioni di persone alla fame e alla morte.
Ecco alcune linee di missionarietà per una Chiesa di antica fondazione che vengono dalla missione ad gentes «paradigma di ogni azione della Chiesa». Ve le ho dette in tutta umiltà – questa almeno è stata la mia intenzione – e mi auguro che vi siano di aiuto.
Questo scritto è il testo della meditazione suggerita da padre Gabriele Ferrari nel ritiro al clero della diocesi di Trento (Tavernerio, 12 novembre 2019).