L’immagine della radice applicata a Gesù è ricca di suggestioni: essa indica la stabilità, la vita e qualcosa che, dal buio, “viene alla luce”.
La fede ha una delle sue massime espressioni nella preghiera. Forse è bene chiederci ogni tanto cosa significa pregare.
Un detto popolare recita: «quando non se ne può più, si ricerca il buon Gesù». È esperienza comune, e non dobbiamo vergognarcene: Gesù ci ha pure invitati a chiedere e a bussare!
Preghiera
Ma c’è un duplice rischio in questo percorso. Il primo è quello di cercare anzitutto ciò che vogliamo noi; il secondo è quello di pensare che ci stiamo rivolgendo a Dio quando in realtà stiamo guardando noi stessi, e la preghiera rischia di diventare un girare in tondo in un cerchio narcisistico.
Le “formule” di preghiera, come le antifone che stiamo meditando, o le orazioni della messa, che tanti non amano perché sognano una preghiera che, per essere vera, dovrebbe essere “spontanea”, in realtà ci salvano dal rischio di girare su noi stessi, e di pensare che pregare voglia dire chiedere che Dio faccia quello che vogliamo noi, quando è vero il contrario.
Ecco perché, ogni tanto, sarebbe bene chiedersi: a quale faccia di Dio mi sto rivolgendo quando prego? Perché antifone e orazioni hanno un duplice movimento: prima mettiamo a fuoco una faccia di Dio, poi facciamo le richieste che ne conseguono. La faccia di questa sera è che Dio, e Gesù suo Figlio, ci si offrono come “radice”.
La radice di Iesse
L’immagine è ricca di suggestioni; la richiesta che segue si regge su due verbi:
«O radice di Iesse, che ti innalzi come vessillo sui popoli,
davanti a te i re chiuderanno la bocca,
te le genti supplicheranno:
vieni a liberarci, non tardare più».
Quasi tutto il testo è preso alla lettera da Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto si innalzerà dalle sue radici. […] In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia» (Is 11,1-10).
Iesse è il padre del re Davide e, in molte vetrate e miniature medievali, è raffigurato l’albero di Iesse, germoglio che nasce proprio dal padre della dinastia e cresce in tronco dove i re d’Israele sono raffigurati in tanti medaglioni, sino a Maria e Gesù che ne sono la cima.
Qui c’è tutto l’aspetto paradossale del mistero dell’incarnazione che celebriamo a Natale: una “radice” che non si vede, che è sepolta nella terra, passa dal buio alla luce, si trasforma in “vessillo”, un segno glorioso che diventa punto di riferimento per i popoli, capace di zittire il potere dei re, e di diventare calamita per l’intera umanità.
Gli antichi scrittori cristiani hanno spesso messo a fuoco una serie di paradossi: l’onnipotente che si fa bambino inerme, colui che è dovunque che va a restringersi nell’utero di una donna, colui che è la Parola che si fa ”in-fante”, cioè uno che non sa parlare! Il paradosso più grande è che la croce, strumento di umiliazione e di vergogna, oltre che di morte, diventa un trono! E diventa il “perno” del mondo, come dice il motto dei certosini: Crux stat, dum volvitur orbis: la croce sta, mentre il mondo gira!
Radicarsi in Gesù
L’immagine della radice è ricca di suggestioni. Ne elenco tre.
a) La radice indica anzitutto la stabilità. Si dice che una convinzione, un’abitudine, una visione delle cose è “radicata” quando è difficile smuoverla o cambiarla. Per dire quanto ciò sia necessario, un monaco del secolo XII, Isacco della Stella, afferma che la persona piena di sé e che si crede autosufficiente, rischia la futilità, perché «le sue radici sono nel vento»!
Chi mette le sue radici in Gesù non corre questo rischio. Penso alle radici dei fiori di montagna, ciclamini, genziane, stelle alpine, così difficili da estrarre dal terreno. Penso alle chiazze fantastiche di rododendri che illuminano di rosa il grigio delle morene, che nessun vento delle cime, per quanto violento, riesce minimamente a strappare.
b) Le radici sono la fonte imprescindibile della vita. Non si vedono, ma si indovinano da ciò che da esse germoglia e fruttifica. Gesù ha pur detto, quando chiedeva di distinguere i profeti veri da quelli falsi: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,14.20). Quello che vediamo sono i frutti, ma non si danno frutti senza radici.
E i maestri spirituali hanno sempre detto che, se vogliamo eliminare i difetti, non possiamo accontentarci di tagliare qualche foglia malata qua e là: bisogna curare le radici! Come pure hanno detto: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che dirlo senza esserlo». Sempre di radici si tratta, dunque, e per “dire” la fede non basta certo portare in giro i presepi! Bisogna essere «radicati e fondati nella carità» (Ef 3,17), nell’amore che è Gesù.
c) C’è un terzo significato che mi piace ricordare. Un poeta bretone, Guillevic, si è paragonato alle «radici, che scavano nel buio alla ricerca di qualcosa da offrire alla luce». Fantastico! Significa allungare le nostre radici nel terreno perché, illuminate e rafforzate da quelle di Gesù al quale siamo attaccati, riescano a trovare nel buio della sofferenza qualcosa da esporre alla luce perché maturi in fiori e frutti.
La croce
Resta l’immagine del vessillo. Questa riguarda soprattutto Gesù. Quel vessillo è la croce.
Ancora un altro paradosso. La croce zittisce i re, perché denuncia che il loro potere è fasullo. C’è un solo potere che è buono: quello di chi soccorre, serve e si dona, come Gesù. A questo potere si rivolgono le genti, tutti quelli che soffrono varie forme di debolezza, ma che dalla loro debolezza traggono motivo di solidarietà con altri deboli, supplicando Gesù che, della sua debolezza, e persino della sua morte, ha fatto un motivo di forza, la “forza dell’amore”.
A una radice che fiorisce in vessillo noi chiediamo: vieni a liberarci, non tardare più!
Liberarci da cosa? Dal fare del “potere”, che scivola facilmente in “prepotenza” e “arroganza”, la radice della nostra sicurezza.
Non possiamo dirci frutto di quella radice che è Gesù, nato bambino fragile e inerme, vissuto sperimentando la fame e la sete, la stanchezza e la fatica, il dubbio e la delusione, il rifiuto e la condanna, il dolore e la morte, se in qualche mondo non riusciamo, con lui e come lui, ad attraversare tutto il “negativo” della vita facendone un motivo che ci aiuta a fare della debolezza una forza. Quale? La forza che ci spinge ad avere compassione di chi è debole, di essere solidale con chi è povero, di beni, di affetti, di intelligenza.
Chi ha le sue radici in Gesù – e a mantenere tale contatto serve, e molto, la preghiera – è come un rododendro che spunta tra le pietraie, e non teme di essere sradicato da nessun vento di tempesta per quanto violento.
«Non tardare», chiede alla fine l’antifona. Ci sono giorni in cui può sembrarci che Gesù scompaia dalla vista, in cui sentiamo che le radici stanno per abbandonare la presa. Ripetiamo allora con la forza del bambino che ha paura di perdere la mano che lo sorregge e lo aiuta a camminare: Vieni, vieni presto, non tardare! Fino a quando non ritroveremo la voce che ripete: Ecco, vengo; ecco, io sono con te tutti i giorni, sino alla fine del mondo (Mt 28,20).