Il celibato indispensabile come dispositivo di blocco: per non esagerare
Le notizie circa le affermazioni “lapidarie” di Joseph Ratzinger e Robert Sarah intorno al tema della possibile ordinazione di “uomini sposati” – scaturita dalle conclusioni del Sinodo sull’Amazzonia – possono sicuramente essere commentate su molti piani diversi: vi sono logiche istituzionali che sembrano infrante, ci sono procedure sinodali ignorate e incomprese, e ci sono anche pressioni esercitate con troppa foga e senza discernimento. Qui vorrei tentare di proporre solo qualche piccolo ragionamento, al fine di comprendere bene quanto sta accadendo:
a) Caricare di troppo peso i singoli passi di un cammino di riforma non è mai saggio: prevedere la “ordinazione di uomini sposati” non è né la catastrofe della Chiesa, né la soluzione di tutti i mali. È piuttosto uno “spazio pastorale” obiettivo, che può aprirsi immediatamente in luoghi nei quali non si danno vocazioni presbiterali secondo i percorsi a cui siamo abituati da secoli, qui in Europa.
b) Le ragioni che hanno portato all’espressione di una posizione che arriva a definire “indispensabile” il celibato e “catastrofico” il suo superamento appaiono non accompagnate da un supporto teologico molto convincen L’opposizione tra ministero e matrimonio è una valutazione di opportunità, che nulla ha di strettamente teologico. Se poi ci si riferisce alla “astinenza” prima della celebrazione, che con la celebrazione quotidiana si sarebbe estesa a tutti i giorni, si dovrebbe collegare a questa ragione, che storicamente è plausibile, la comprensione di una “celebrazione di tutta l’assemblea” che porterebbe a conseguenze davvero paradossali. Che forse la fede celebrata sia divenuta una esclusiva dei maschi celibi? Il rischio è che si confonda l’ontologia con l’abitudine, o forse con la patologia.
c) Non è difficile trovare, in questo “non poter tacere”, un’espressione del movimento inerziale che ho chiamato “dispositivo di blocco”. Al di là del giudizio sull’opportunità e sulla convenienza di un provvedimento che riguarda la “disciplina della Chiesa circa la ordinazione presbiterale”, agitare lo spauracchio della “catastrofe” rappresenta un argomento forte per indurre a pensare che non vi sia nulla da cambiare e che lo spazio delle riforme sia sottratto a una Chiesa che ritenga di non avere alcun potere sulle forme concrete con cui i suoi ministri sono scelti e selezionati. Vedere l’incompatibilità tra ministero ordinato e matrimonio come l’unica salvaguardia della Chiesa è, nello stesso tempo, un modo per bloccare la storia e un escamotage per non affrontare le questioni più brucianti, che non sono anzitutto quelle legate al celibato.
d) Ad ogni modo e in ogni caso non è né utile né giusto esagerare. Nessuno ha mai parlato di “superamento del celibato”, ma di affiancamento, alla via celibataria, che resta la via privilegiata, di una via “uxorata” al ministero presbiterale cattolico. D’altra parte, tra le caratteristiche più preziose di “pastori emeriti” dovrebbe esserci quella virtù della prudenza che potrebbe impedire, precisamente, di diffondere messaggi inesatti mediante incaute esagerazioni. E non è detto che non sia proprio una vita celibataria e solitaria a produrre, inavvertitamente, queste letture catastrofiche del cammino ecclesiale. Tale cammino di Chiesa può trovare proprio in uomini sposati un rilancio della vocazione al ministero: prima di tutto in Amazzonia, ma forse anche al di qua e al di là della foresta. E non dovrebbe essere escluso che alla possibile catastrofe di un celibato vissuto male possa rimediare un ministero felicemente uxorato. E che alla foresta oscura di una lettura ostinata e catastrofica della tradizione ministeriale, che vede ogni novità come una sicura rovina, possa rimediare la pluralità benedetta di culture e di forme di vita che la foresta amazzonica sa offrirci con inesauribile ricchezza. E che dobbiamo saper onorare, senza pretendere che tutto il mondo sia riducibile a quattro stanzette nella Curia romana.
Pubblicato il 13 gennaio 2020 nel blog: Come se non.