Zingaretti è un passista. Secondo il dizionario, in senso ciclistico, «passista è un atleta che ha una particolare attitudine alle gare su lunghi percorsi pianeggianti perché è capace di mantenere a lungo un’andatura sostenuta e regolare». Non è un velocista, non è uno scattista.
Fuor di metafora, è politico paziente, riflessivo, costante. Non un leader dal carisma esuberante. Un politico di vecchia scuola, dal quale non ci si attendono né colpi di genio né colpi di testa. Un passista che, tuttavia, non ha goduto del vantaggio di un percorso pianeggiante. Ha preso le redini di un partito al tappeto, reduce da una bruciante sconfitta elettorale e, a seguire, ha subito due scissioni, da parte di Renzi e di Calenda.
E tuttavia, diciamo così, è riuscito nell’impresa di restituire una certa unità interna al partito, di assicurare una lieve ripresa del consenso alle europee e alle regionali a cavallo di esse, di riportare il PD al governo con la estemporanea maggioranza giallo-rossa. In sintesi, ha rimesso in piedi un partito in ginocchio, pur se ancora afflitto da molti problemi. Le prove più impegnative ancora devono venire, a cominciare dalle decisive elezioni emiliane.
Zingaretti passista, Salvini palestrato
Non è un mistero che Zingaretti, di suo, sulle prime, fosse contrario alla soluzione del Conte 2 e piuttosto orientato ad andare ad elezioni, dopo la crisi dell’esecutivo giallo-verde. Con due buoni argomenti: la difficile raccontabilità e praticabilità di un’improvvisa alleanza con i 5 stelle dopo anni di reciproci anatemi e l’opportunità di capeggiare, polarizzandolo, il fronte anti-Salvini dopo il discreto risultato delle europee che – punto decisivo – videro il sorpasso del PD sui 5 stelle. Con un ulteriore obiettivo malcelato: sostituire gruppi parlamentari nominati quasi per intero da Renzi.
Al dunque, Zingaretti si è fatto poi convincere da un solo e tuttavia decisivo argomento oggettivamente di peso, che va chiamato con il suo nome: scongiurare elezioni che, prevedibilmente, avrebbero consegnato il paese a un Salvini spavaldo e privo di reali competitor.
Anche per una ragione di principio: opporsi alla pretesa di portare il paese a elezioni ravvicinate da parte dello stesso Salvini che aveva staccato la spina al governo giallo-verde del quale era indiscutibilmente l’uomo forte e in ascesa, facendo affidamento sul largo consenso attribuitogli dai sondaggi. Una pretesa impropria in contrasto con il carattere parlamentare della nostra democrazia, nel quale a elezioni anticipate ci si va solo quando si sia accertato che non vi siano altre maggioranze nelle Camere. Una verifica e una conseguente decisione in capo solo ed esclusivamente al Presidente della Repubblica quale figura di garanzia. E non certo agli attori politici, mossi da una interessi di parte.
Discontinuità?
Onestamente, non si può dire che, sin qui, l’esperienza del Conte 2 sia stata brillante. All’atto del suo varo, Zingaretti invocò l’esigenza di una discontinuità. L’ha ottenuta? È presto per concludere in un senso o nell’altro.
Vi sono segnali contraddittori. A depotenziare tale discontinuità concorrono di certo due elementi: la circostanza del medesimo premier (Conte) e la resistenza del partner di governo (5 stelle), ancora forza maggioritaria in parlamento, a mettere in discussione le azioni e le misure varate dal Conte 1. A cominciare dalle sue leggi bandiera, tipo reddito di cittadinanza e quota cento (anticipo pensionistico).
E tuttavia sarebbe ingeneroso non riconoscere qualche positiva novità: nel rapporto con l’Europa, nella politica migratoria, nel fisco (né flat tax né condoni), ma soprattutto nel clima generale che si respira nel paese, per un anno avvelenato da Salvini.
Certo, non può bastare: è all’ordine del giorno una cosiddetta verifica di maggioranza che dia origine alla fase due del governo, nella quale il PD si propone di inscrivere in agenda le proprie priorità programmatiche politicamente più qualificanti e tese appunto a marcare la suddetta discontinuità: su famiglia, lavoro, welfare, sicurezza, green economy.
Torsioni pentastellate
In ogni caso, a Zingaretti è giusto dare atto di due meriti. Primo: dopo avere cambiato idea, dichiarandolo pubblicamente, egli ha fatto del PD il partito che più di ogni altro ha scommesso sul governo, sostenendolo con lealtà, convinzione, costanza. Al punto da esagerare un po’ nell’apprezzamento del premier Conte, accreditandolo come punto di riferimento dei progressisti.
Secondo: l’avere sostenuto, dopo la “conversione”, che un governo non si può reggere su un precario contratto, ma presuppone una comune visione. In sostanza impegnandosi a fare evolvere il rapporto con i 5 stelle da mera collaborazione di governo a patto politico stabile di portata strategica. Nella giusta convinzione che solo così è possibile operare un doppio scatto: nella qualità e nel respiro dell’azione di governo e, simultaneamente, nel concorrere, insieme, alla evoluzione delle relazioni e del sistema politico verso un nuovo, sano bipolarismo. Tra destra a guida Salvini e centrosinistra imperniato sull’asse PD-M5S.
So bene che i 5 stelle o una parte di essi, a cominciare da Di Maio, resistono a una tale opzione strategica e tuttavia è mia convinzione che il travaglio del M5S e la stessa crisi della sua vacillante leadership sono anche il prodotto – virtualmente fecondo e comunque da mettere nel conto – della sfida ingaggiata dal PD.
Intendiamoci: sono molteplici la ragioni del tormento interno ai pentastellati, ma la madre e la radice ultima di esse stanno appunto nell’irrisolto nodo identitario, nella pretesa/illusione di potersi sottrarre a una chiara scelta di campo lungo l’asse destra-sinistra. Una terzietà sin qui lucrosa nella raccolta del consenso, ma, alla distanza politicamente impraticabile e dal sapore trasformistico, specie da posizioni di governo.
Rifondazioni annunciate
Bon grè mal grè, essi a quella scelta saranno costretti. È da auspicare che lo facciano nei loro Stati generali (l’equivalente di un congresso) annunciati per il prossimo marzo. Sperando che non sia troppo tardi per arginare lo sfarinamento in corso del gruppo parlamentare del M5S e il vistoso calo dei consensi.
Comunque si è messo in moto un processo politico il cui esito molto dipende dagli sviluppi della collaborazione di governo, ma anche dalla eventuale maturazione di una progressiva affinità politica con il principale partner di governo. Un processo nel quale, come si disse un tempo, chi avrà più filo tesserà; e il PD, se ne sarà capace, potrà far valere (democraticamente) la propria egemonia.
Un po’ ciò che, sul fronte opposto, con il governo giallo-verde, riuscì a Salvini, che, nel giro di un anno, rovesciò i rapporti di forza elettorale con il M5S. Che il PD ci riesca non è sicuro. Ma è suo dovere provarci. Pena rassegnarsi a un destino già scritto: quello di un paese consegnato a una destra illiberale e nazionalista priva di reali competitor e dunque a una democrazia malata.
Zingaretti, a La Repubblica, ha altresì annunciato l’intenzione di indire un congresso dall’ambizione alta. Quella di un PD che vada oltre se stesso, di una sorta di rifondazione di esso. Forse dovrebbe essere ancor più esplicito e coraggioso: impegnare il PD a partecipare, insieme e a pari di altri, al cantiere di un soggetto politico davvero nuovo a tutti gli effetti, con forze civiche, sociali, ambientaliste. Con la consapevolezza che vi è un fermento diffuso, che vi sono risorse partecipative nel campo democratico e progressista – sintomatiche le Sardine – che tuttavia difficilmente aderirebbero a un PD che semplicemente si allarga o anche si rifonda.
Basterà rifondare?
Tuttavia – va detto – una tale, ambiziosa prospettiva, se presa sul serio, non sarebbe indolore per il PD. Esso dovrebbe mettersi interamente in gioco.
Esemplifico: fare ammenda di una stagione (ancora non è stato elaborato un giudizio su di essa), che di sicuro ha scavato un solco tra il PD e il popolo democratico e di sinistra, il quale lo ha visto come il partito dell’establishment; ritessere il filo interrotto delle relazioni con le forze sociali e i corpi intermedi, che è elemento cardine delle forze laburiste e riformiste; disegnare il volto di una sinistra nuova e moderna, non riproponendo vecchie ricette e forme politiche desuete (quelle della “ditta”), il che tuttavia, a sua volta, non comporta la subalternità al paradigma neoliberale e tardo-blairiano in un tempo semmai dominato da una diffusa domanda di protezione sociale; operare un profondo ricambio del gruppo dirigente che, nella sua quasi interezza, ha condiviso la sindrome governista e la responsabilità di un deragliamento dal solco dell’Ulivo.
È lecito sperare che a realizzare quella virtuosa discontinuità sia Zingaretti, che di quel deragliamento coronato da una sonora sconfitta è meno responsabile di altri, in quanto a quel tempo un po’ defilato, impegnato com’era ad amministrare la regione Lazio. Ma egli deve essere consapevole che estese e tenaci saranno le resistenze della “confederazione di cordate” interne al partito e che, di riflesso, alla mitezza che ha sin qui contrassegnato l’esercizio della sua leadership dovrà accompagnare l’audacia e la determinazione.
L’imperativo della discontinuità vale anche per lui.
io vorrei caditarmi come il sindaco di governo