L’ottima collana “Parole allo specchio” delle Edizioni Messaggero di Padova si arricchisce in questi giorni di un nuovo volume a firma di Lorenzo Biagi, direttore del dipartimento di pedagogia e docente di antropologia filosofica ed etica presso l’Istituto universitario salesiano di Venezia, e di discipline filosofiche presso l’Istituto teologico di Treviso, ma anche giornalista collaboratore de Il Fatto quotidiano e saggista.
Il termine da lui scelto è questa volta “uomo” e, di conseguenza, “umano” l’aggettivo di riferimento.
«La parola uomo oggi è assediata da troppi sottintesi e troppe esclusioni e se la metti allo specchio si aprono tanti volti quanti ce ne possono stare nel labirinto degli specchi. E questi volti moltiplicano un’immagine sempre più sfigurata della matrice originaria dell’uomo».
Piuttosto che affannarsi a definire il “post-umano”, occorre chiedersi, umilmente, cosa sia “umano”» e Biagi sembra non avere dubbi: un originale compito di “ritorno all’uomo” inteso come «una messa a fuoco dell’essere uomo, della nostra condizione umana, con riferimento a tutti i caratteri, le qualità, i vantaggi, ma anche ai limiti, i condizionamenti, le fragilità, le debolezze, i difetti, l’imperfezione di tale condizione propriamente umana».
Appare allora quanto mai necessario andare a «rintracciare quella “grammatica elementare dell’umano” per farci ancora appassionare all’impegnativo e rischioso compito di disegnare e apprezzare il progetto-uomo».
Per questa impresa Biagi scomoda tante firme del Novecento, ma non solo: parte da Albert Camus e da Edith Stein per passare a Claude Lévi-Strauss e a Colette Soler, allieva di Lacan, ma non dimentica i precedenti, a cominciare da Nietzsche fino ai contemporanei Recalcati e Lévinas. E pure il 52° Rapporto Censis: «L’Italia sta traducendo la rabbia per tutti i problemi del Paese in violenza verbale e fisica perché gli italiani appaiono “incattiviti, confusi, disorientati, arrabbiati”».
In linea con quanto denunciato dall’Osce e dalla commissione parlamentare Jo Cox: tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 si registra in Italia un aumento impressionante di reati di violenza a sfondo razziale (una settantina tra accoltellamenti, sprangate, investimenti…) che vanno in parallelo al linguaggio sempre più violento e razzista dei social e pure della stampa nazionale.
Anche se abbiamo rovesciato quanto appariva irrovesciabile (l’humanum officium di antica memoria, se praticato oggi, viene giudicato reato umanitario), per Biagi siamo di fronte ad un mutamento antropologico in quanto arriva a concludere che «l’uomo non è un oggetto difficile per il pensiero, ma soltanto un “oggetto inesistente”». Eppure, la storia biologica dello sviluppo, la psicologia del profondo e la critica sociologica rappresentano quelle discipline “nuove” che nel XX secolo hanno costruito i nuovi pilastri della cultura moderna e sancito la non superiorità dell’uomo sul resto del creato: «L’uomo approfondisce il proprio essere nella misura in cui esce dal ripiegamento su se stesso e si apre al cosmo, alla vita, alla psiche, quest’ultima depsicologizzata e intesa come “la grande condizione mistica della vita umana”».
Indispensabile il superamento dell’homo oeconomicus, secondo cui l’uomo è “per natura” orientato alla ricerca del proprio tornaconto individuale e tutto ciò che ha a che fare con altruismo, dono, gratuità, generosità e affini si manifesta o come ipocrisia o mero idealismo perché, in fin dei conti, l’essere umano avrebbe un’unica motivazione fondamentale, quella del guadagno.
E anche «la razza bianca, è chiaro, non è mai esistita. Sono invece esistite tante popolazioni diverse e in continuo movimento. I loro scambi hanno generato l’infinita varietà di sfumature, nel colore della pelle, nelle stature e nel girovita, nella forma del viso, nella capacità di digerire il latte o di percepire i sapori, che chiamiamo biodiversità umana». Al punto che l’antropologo francese Jean-Loup Amselle arriva a parlare di meticciato, in quanto non sono mai esistite società chiuse e pure, ma «la mescolanza delle società e delle civiltà è una costante della storia universale».
Un richiamo anche a Helmuth Plessner, padre dell’antropologia filosofica contemporanea e del significato moderno di limite: l’uomo non possiede istinti specializzati come hanno gli animali, ecco perché un animale ha un suo proprio ambiente di vita e l’uomo no, perché aperto al mondo come ad un immenso campo di sorprese. E a Max Weber: «L’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto» fino al significato del corpo («ormai sappiamo che l’essere umano non ha solo un corpo, ma che egli è corpo»): il concetto di corpo vissuto, perché è grazie al corpo che noi siamo presenti agli altri e al mondo.
E, infine, forse, una sorpresa: «la storia dell’umanità è iniziata quando gli uomini si sono messi in cammino»; in altre parole, l’evoluzione umana non è partita dal cervello, come si è creduto per anni, bensì dai piedi (homo viator). Cos’è allora l’uomo? Un essere pratico che crede e spera, in fin dei conti un essere “religioso”.
LORENZO BIAGI, Uomo. Collana “Parole allo specchio”, Edizioni Messaggero, Padova 2020, pp. 184, € 16,00.