Nel contesto spagnolo è praticamente sconosciuto il termine “Shoah” per indicare lo sterminio degli ebrei. Un ritardo culturale da colmare.
Eravamo nel 1998 quando mi capitò tra mano un testo, scritto dalla Commissione per le relazioni religiose con l’ebraismo, intitolato: Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah. La mia sorpresa fu tanto grande, poiché era la prima volta che sentivo la parola “Shoah”. Chiesi a Bruno Forte, membro a quel tempo della Commissione teologica internazionale, cosa volesse dire quel termine e a che cosa serviva il suo impiego.
Allora mi resi conto che si trattava di un’espressione, condivisa da una buona parte di ebrei e cristiani, adottata per sostituire (anche tra i cattolici) la nozione di “Olocausto”, quando ci si riferiva allo sterminio di sei milioni di ebrei e di altri tre milioni di zingari, di disabili e di omosessuali, cattolici e comunisti, da parte della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale.
“Olocausto” – mi rispose – è un termine derivato dal greco, giunto a noi attraverso il latino, che significa, dal punto di vista etimologico, “bruciare tutto”. È più che risaputo – aggiunse – che, nell’antica religione greca, i sacerdoti bruciavano sull’altare un animale (o cento buoi, nel caso di una ”ecatombe”) allo scopo di placare l’ira degli dèi grazie all’aroma emanato dalla carne arrostita. Era una pratica che si può trovare anche nel Primo o Antico Testamento; in concreto, nel Libro del Levitico (cf. 6,2 e ss.). Lì si legge come Mosè ordina a suo fratello Aronne, sacerdote, che lui e coloro che gli sarebbero succeduti in questa responsabilità, custodissero un fuoco acceso in permanenza sull’altare affinché, bruciando dei montoni, si producesse un «profumo gradito in onore del Signore».
Definire “olocausto” la cosiddetta “soluzione finale” del nazismo – ha aggiunto Bruno Forte –, alla luce di ciò che significa nella Grecia antica e nella liturgia mosaica, è uno sproposito, per non dire una irritante bestemmia.
Il meccanismo di annichilamento messo in atto da Adolf Hitler non ha nulla di sacrificio o di offerta da presentare a Dio. Si tratta – concluse il teologo – dell’annientamento sistematico e dello sterminio del popolo ebreo, di alcune minoranze e di dissidenti.
È qualcosa che risulta meglio espresso usando il termine “Shoah”, un concetto ebraico, polisemantico, che significa catastrofe, afflizione, deserto, vuoto e spopolamento, ossia la situazione in cui si trovò Gerusalemme dopo la distruzione del primo e secondo tempio e che, in riferimento alla cosiddetta “soluzione finale”, intendiamo come “sterminio nazista”.
A partire da quella data, il mio interesse per la storia del termine e, ovviamente, per il dialogo tra ebrei e cristiani, e in particolare, con i cattolici, raddoppiò.
In concreto, seppi che si trattava di un termine che non figurava nell’edizione del nuovo Dizionario ebraico del 1970, anche se è entrato in quelle successive. E anche che, all’ingresso del museo Yad Vashem (la memoria e il nome) di Gerusalemme, si può leggere, in inglese, World Center for the Holocaust Remembrance (“Centro mondiale per il ricordo dell’Olocausto”); così come l’Assemblea generale dell’ONU dichiarò il 27 gennaio Giorno internazionale della Commemorazione annuale delle vittime dell’olocausto (2005).
Ma anche il Parlamento di Israele aveva fissato il 12 aprile 1961 “Giorno nazionale della memoria dello sterminio” del popolo da parte dei nazisti, noto come Giorno della catastrofe (“Shoah”. Ed era ricorso a questo vocabolo consapevole che i termini di genocidio (“Shoah” = distruzione di una nazione o di un gruppo etnico) e “Olocausto” non erano sufficienti a definire la “soluzione finale” o la barbarie attuata nei campi di sterminio.
E anche che Shoah era stato il titolo che il regista Claude Lanzmann diede alla sua pellicola monumentale di documentazione di oltre nove ore di durata, risultato di oltre dieci anni di ricerche. In questa indagine filmò le testimonianze dei sopravissuti, pubblicate in prima visione nel 1985. Da allora è diventata un punto di riferimento obbligatorio.
E, infine, seppi anche che furono molte le voci che si alzarono contro l’uso del termine “Olocausto” per ragioni simili o convergenti con quelle indicate. Tra queste, quella di Primo Levi.
È evidente che, nonostante la forza di argomentazione contenuta nell’uso del termine “Shoah”, esso continua a coesistere con quello di “Olocausto”. Anche se la parola “Shoah” è praticamente sconosciuta nella stragrande maggioranza dei commenti nella stampa e nei mezzi di comunicazione spagnoli.
È ciò che di nuovo ho costatato in questi ultimi giorni, leggendo le notizie e alcuni articoli di opinione nel 75° anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau, diventato il simbolo della “Shoah” o dello “sterminio nazista”.
Ci auguriamo che anche la stampa e il modo di pensare spagnolo comincino a familiarizzarsi, come la maggior parte dei media culturali europei e di una buona parte del mondo, con questo concetto e seppelliscano nei solchi della storia quello di “Olocausto”.