Fratello Francesco,
non so nemmeno se leggerai questa lettera. Lo stile epistolare è diventato per me un genere letterario: perché immaginare un interlocutore mi aiuta ad esprimermi.
In ogni caso, vorrei commentare un po’ la tua recente decisione sull’ordinazione presbiterale degli uomini sposati, in merito al sinodo dell’Amazzonia. Più che un rifiuto, è una non-decisione: non hai aperto la porta ma non l’hai neanche chiusa a chiave. Suppongo che per timore di uno scisma in questa Chiesa dove c’è un settore che non si stanca di metterti i bastoni tra le ruote e che questa volta si è visto aiutato da tutto questo clamore mediatico che dava l’impressione che fosse l’unica cosa che contava nella tematica dell’Amazzonia.
Vorrei cercare di capirti
E anche da tutti coloro a cui già Engels faceva riferimento in una famosa lettera sul nascente socialismo, in cui diceva che, non appena appare una nuova impresa, tutte le persone frustrate si rifugiano in essa per usarla a proprio vantaggio e non a favore dei destinatari di questa impresa.
Per tutti questi motivi, cerco di capirti. Posso anche presumere di aver scritto alcune pagine in lode del celibato, riconoscendo anche l’enorme pericolo dell’essere scapolo e concludendo che solo uno che umilmente osa confessare che il suo celibato gli ha insegnato ad amare, potrà dare una buona testimonianza sul celibato. A partire da questa posizione personale, con alcune riflessioni vorrei portare un contributo, con l’aspirazione – così strana oggi – che non valgono per l’autorità della persona che le dice (che in questo caso è nulla) ma per la verità di quello che dicono.
C’è una frase del Vangelo che credo di portare incisa nell’anima e sono quelle dure parole di Gesù: “Ipocriti! Infrangete la volontà di Dio per aggrapparvi alle tradizioni dei vostri progenitori” (Mc 7, 6-8). Quando ero giovane, e mi piaceva provocare di più, scrissi che queste parole dovevano essere scritte sulla facciata di San Pietro in Vaticano, invece di “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa…”
Il pane per tutti
Ebbene, quando rileggo queste parole di Gesù, due cose mi sembrano ovvie: è volontà di Dio che tutti i cristiani (anche quelli dell’Amazzonia) possano celebrare l’Eucaristia. Quel compito, “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19), si applica a tutti i cristiani, siano essi korubos, pirikpuras o romani. Invece, la legge del celibato non è un comandamento divino, ma una tradizione umana: assolutamente venerabile per quanto si voglia, ma tradizione umana.
Penso anche al consiglio che ti ha dato un vescovo brasiliano quando ti è stato affidato il ministero di Pietro: “non dimenticare i poveri”. E ora vale l’argomento che è stato prodotto a partire da posizioni più conservatrici: ricordarsi dei poveri non è solo ricordarsi dei loro diritti umani calpestati, ma anche del fatto che possano ricevere Cristo. Se la norma del celibato è diversa nel mondo dei poveri rispetto a quella del nostro mondo ricco, non sembrerà un’applicazione del celebre discorso del vescovo Bossuet sull’eminente dignità dei poveri nella Chiesa?
Preti per il ministero, non per altro
In esso il famoso oratore diceva: “nel mondo i primi sono i ricchi, nella Chiesa i primi sono i poveri; nel mondo i favori e i privilegi sono per i ricchi, mentre nella Chiesa di Gesù Cristo le grazie e le benedizioni sono per i poveri”… Siamo molto lontani da questo, purtroppo. Ma almeno non sarebbe male che un gesto molto forte ce lo ricordasse.
E se no, su un piano leggermente più bizzarro e gioviale, c’è un’altra soluzione perché quei poveri non siano privati dell’Eucaristia. Nella tua Curia romana, fratello Francesco, ci sono legioni di presbiteri che vivono nel celibato e non hanno praticamente alcun lavoro ministeriale.
Molti di loro sono anche vescovi senza chiesa, contro l’esplicito divieto del concilio di Caledonia (già nel 451). Si tenta di eludere questo divieto assegnando loro una chiesa inesistente. Il che sembra una vera ipocrisia, che già Benedetto XVI voleva eliminare, ma la curia non lo ha permesso.
Ebbene, sarebbe così assurdo inviare tutti questi preti celibi della Curia nelle regioni perdute del Brasile, del Perù, del Ciad o di Tehuantepec, in modo che quei cristiani possano vedere adempiuto il loro diritto di celebrare l’Eucaristia? La Curia romana potrebbe essere occupata da fedeli laici (anche “viri probati”), sposati e padri di famiglia.
Una burocrazia vaticana laicale
Perché nessuna legge ecclesiastica richiede il celibato per essere un impiegato, indipendentemente da quanto sia importante o sacro quest’ufficio. Sarebbero eccellenti “burocrati cristiani” (secondo l’espressione rassegnata e umoristica di un fratello nostro gesuita, che ha trascorso tutta la sua vita come segretario degli uni e degli altri).
Tutto ciò sembra una stupidaggine? Forse sì. Ma forse dove ci sono problemi estremi, bisogna cercare soluzioni estreme e dove le cose sono mal distribuite, bisogna cercare di distribuirle bene. In ogni caso, potrebbe essere un’ottima occasione perché uomini come il cardinale Sarah o il cardinale Müller possano dimostrare il significato ministeriale del celibato.
E tornando seri: tutti crediamo di stare cercando qui la volontà di Dio. Perché non mettere tutta la Chiesa in uno stato di preghiera per chiedere quello che dice Sant’Ignazio: “che conosciamo ed adempiamo la sua santa volontà?”. Quando chiediamo questo nella preghiera, è ampiamente dimostrato che questa richiesta è sicuramente ascoltata.
Un abbraccio molto fraterno e riverente, per quanto virtuale.
Articolo pubblicato sul blog dell’autore in Religion Digital. Traduzione italiana di Lorenzo Tommaselli.