Padre Jacques Mourad era rettore del santuario di Mar Elian e parroco della comunità siro-cattolica di Qaryatayn nella Siria centrale quando, il 21 maggio 2015, è stato rapito dai miliziani dell’ISIS.
La sua vicenda è narrata nel libro Un monaco in ostaggio, la lotta per la pace di un prigioniero dei jihadisti, Effatà Editrice 2019. Recentemente, il 13 febbraio scorso, ha raccontato quanto gli è accaduto. La sua testimonianza è stata raccolta da Giordano Cavallari.
Il santuario di Mar Elian nel deserto di Siria, ove si trovava la tomba di san Giuliano di Edessa, era un punto di riferimento per i cittadini di Qaryatayn, luogo sacro sia per i cristiani di tutte le confessioni, sia per i musulmani. Non deve apparire strano: in Siria cristiani e musulmani frequentano i medesimi luoghi sacri. Tanti musulmani venivano in pellegrinaggio nel monastero di Mar Elian nel deserto – come nel vicino monastero di Mar Musa ricostruito da padre Paolo Dall’Oglio – alla presenza di Dio. I pellegrini non venivano solo una volta, ma tante volte.
Nella città di Qaryatayn, cristiani e musulmani hanno vissuto sempre insieme. Mai divisi. La nostra presenza ha superato diversità e difficoltà. Ogni anno dedicavamo intere settimane di incontro interconfessionale e interreligioso con maestri, sacerdoti e imam. Tanti giovani – cristiani e musulmani – erano attirati da queste esperienze. Giungevano con il loro coraggio e con il loro entusiasmo per il futuro. Sino al tempo in cui è giunta la guerra.
La guerra di Siria appare, specie in Occidente, una guerra di religione che divide il popolo siriano. Ma questa rappresentazione non riflette affatto l’indole del popolo siriano. Io sono cristiano siro-cattolico e appartengo al popolo siriano sin dalla nascita. Il popolo siriano non vuole la divisione.
Il rapimento (21 maggio 2015)
I musulmani hanno frequentato per mesi e anni il nostro monastero come una casa, con porte e con finestre sempre aperte. Sino al giorno in cui un gruppo di otto o dieci jihadisti armati sono entrati nella mia stanza. Mi hanno picchiato, bendato e legato mani e braccia. Con me hanno preso un giovane postulante. Ci hanno portato in mezzo al deserto.
In quei momenti di terrore ho sentito nel mio cuore un moto inspiegabile di libertà. Mi ripetevo: “Vado verso la libertà”. Non sapevo dove. Non sapevo perché. E mi chiedevo stupito: “Come mai sento questa cosa?”
La prigionia a Raqqa
Arrivati nel nord della Siria, ci hanno chiusi dentro una stanza da bagno di sei metri per tre. Per quanto sporca – anche di sangue – c’era acqua a disposizione. Hanno scelto questo luogo perché i cristiani – per i jihadisti – sono impuri e devono lavarsi. Durante i giorni di questa prigionia mi hanno trattato con violenza, con parole molto dure, irripetibili. Ma ho sentito che Dio mi stava dando un dono molto speciale di preghiera nel silenzio.
Il mio sguardo andava al carceriere che mi diceva parolacce portandomi il piatto di riso. Non riuscivo a provare se non compassione verso di lui. Pensavo quanto fosse prigioniero della sua rabbia: prigioniero molto più di me. Io penso di non essere in grado di provare un tale sentimento di tenerezza se non in virtù di una speciale grazia concessami dal Signore.
Un giorno è entrato nella stanza un capo con i suoi armati. Ho pensato alla decapitazione. Ma con mia grande sorpresa, costui si è rivolto a me gentilmente con il saluto islamico della pace. I jihadisti infatti non scambiano mai il saluto di pace con coloro che ritengono blasfemi. Dopo di che ha cominciato a farmi domande di teologia. I jihadisti fanno sempre domande di teologia per dimostrare la blasfemia dei cristiani. Io ho provato a rispondere con sincerità. Lui mi ha ascoltato senza dire nulla.
Alla fine dell’incontro ho chiesto che male avevamo fatto per essere tenuti prigionieri. Mi ha guardato in profondità negli occhi e, con calma, mi ha invitato ad interpretare quel tempo di reclusione come un ritiro spirituale. Ho saputo in seguito che quell’uomo era il capo dei jihadisti di Raqqa. Questo ha aumentato in me lo stupore per quanto avvenuto.
A Palmira (agosto 2015)
Dopo circa tre mesi trascorsi in questo modo sono stato portato nella città di Palmira ove erano già tenuti in ostaggio circa 250 miei parrocchiani, cristiani di Qaryatayn: vecchi, donne, bambini, malati e menomati che non erano riusciti a scappare dalla città all’arrivo dei jihadisti. Vedere questi figli davanti a me è stata l’esperienza più bella e difficile. Si trattava di alimentare in loro sentimenti di speranza e di perdono.
Dopo 25 giorni di prigionia collettiva, è arrivato un capo dell’ISIS a dire che questi cristiani avevano avuto il permesso di tornare alle loro case, con l’obbligo di seguire le leggi dello stato islamico. Questo capo ha letto un lungo documento che ci diceva tutte le cose che avremmo dovuto fare e che non avremmo dovuto fare.
Dopo questa lettura avevo tanta paura dentro di me. Perché questa decisione? L’ho chiesto a questo uomo. E subito lui mi ha risposto: “Perché voi cristiani avete rinunciato a portare le armi contro di noi musulmani”. Anche in quel momento io sono rimasto molto sorpreso. Lui aveva evidentemente incontrato, nei suoi scontri di guerra, cristiani con le armi appartenenti all’esercito siriano.
Il servizio segreto del governo siriano aveva invitato alle armi anche i miei parrocchiani. Io non ero d’accordo. Ho sempre ricordato l’insegnamento del nostro maestro Gesù Cristo che ha vietato di usare armi ed è morto crocifisso per la nostra salvezza. Evidentemente questo capo dell’ISIS aveva notato che la nostra scelta era stata diversa da altre.
Sotto i bombardamenti a Qaryatayn e la fuga (settembre 2015)
Quando poi sono iniziati i bombardamenti (dell’esercito siriano) sulla città, ho pensato di nuovo che saremmo tutti morti. Siamo stati rinchiusi nei sotterranei per quattro giorni. Nel quarto giorno di bombardamenti ho sentito – tra contraddizioni e lotta interiore – che avremmo dovuto cercare di scappare: anch’io ho deciso che avrei tentato di fuggire. Sinché ho chiesto a un amico musulmano – a cui sapevo di poter chiedere – di prendermi sulla sua motocicletta. Non mi importava niente del pericolo in quel momento: un doppio pericolo, dell’ISIS e dei bombardamenti.
Gli ho detto: “prendimi!”. Abbiamo passato il check point dell’ISIS inspiegabilmente. Sono tornato libero. Altri amici musulmani sono riusciti, in maniera simile, a salvare, nello stesso giorno, altri 58 cristiani prigionieri. Alcuni di questi amici musulmani hanno poi pagato i loro gesti coraggiosi con la loro vita. Ora sono affranto: queste persone sono morte perché noi potessimo vivere.
Il mio stato d’animo
Proprio dopo essere tornato alla libertà e alla vita, mi sono sentito veramente solo. Ho sentito il desiderio forte di andare via, lontano, in Italia e in Europa. Cosa che poi ho fatto. Ma ricordavo insistentemente un vecchio uomo incontrato tempo prima, a cui avevo chiesto: “Come va?”. Lui mi aveva risposto: “Grazie a Dio”. Tutti i suoi figli erano morti. Aveva perso la casa e tutto quanto. Gli restava solo la vita. Perché diceva: “Grazie a Dio”? Io mi sentivo davvero sorpreso e disorientato, veramente molto solo. Sebbene nella grazia di Dio.
In Iraq
Ora sono vicino al mio paese. Voglio prima o poi tornare in Siria. Sono in Iraq, nella parte curda, insieme con i miei fratelli cristiani siro-cattolici scappati senza niente, ma con la loro vita. Preghiamo insieme per superare l’odio. Dopo tutto ciò che è accaduto e ancora accade. Preghiamo per superare le chiusure davanti al male. Preghiamo per trovare la forza di perdonare. Perché questa soltanto può essere la testimonianza di fede dei discepoli di Cristo.
«Le porte dell’inferno non prevarranno»: è la promessa di Gesù. Fedeltà è restare nella sua promessa. Noi siamo testimoni della speranza. E non c’è speranza senza gioia per il sole che sale ancora ogni giorno. Conserviamo la nostra speranza di pace. Abbiamo la responsabilità di rendere possibile il miracolo della pace.
La Siria oggi
In Siria tutti oggi sono prigionieri delle loro idee, hanno le loro ragioni e le loro alleanze: regime, opposizione… ISIS. Dentro ciascuna di queste parti c’è una ragione che giustifica la propria posizione. Non si può vincere dunque la guerra con la ragione perché ogni ragione è ormai chiusa in sé stessa. Solo i cuori aperti possono vincere la guerra. Nel mio cuore oggi ci sono particolarmente tutti i prigionieri tenuti come ostaggi. L’ISIS è famosa per gli ostaggi. Ma i prigionieri che sono tenuti in ostaggio dal regime sono dimenticati. Sono nascosti nel silenzio.
Il ruolo dei cristiani
Mi sono confrontato tanto con i cristiani che odiano i musulmani perché nella loro vita hanno sofferto in maniera inenarrabile a causa di persone musulmane. Ma, da cristiano, io non posso sempre ritornare a ciò che ho vissuto e sofferto. Io devo andare avanti, guardare a ciò che Gesù mi ha consegnato come Vangelo. Ci sono cristiani che, di fatto, non sono d’accordo con me. Ma io penso che dobbiamo fare il nostro dovere di fronte agli occhi del nostro Dio. Con la fiducia che Lui fa sempre quello che deve fare per aprire i nostri cuori. Se vogliamo fare pace, abbiamo bisogno di abbandonare la paura e l’odio.
È incredibile quanto papa Francesco abbia fatto per la speranza nel mio paese e per tutto il Medio Oriente. Voglio portare un piccolo ricordo. Conosco una donna musulmana curda che ha lavorato per mesi per realizzare un calice con i simboli di tutte le comunità religiose che sono in Iraq, da offrire al papa in visita nel novembre scorso. Quando oggi parla del papa, è ancora molto emozionata.
Il documento sulla Fratellanza umana firmato da papa Francesco è per me un esempio straordinario, perché non è una lezione di teologia. Vi è indicato un metodo per vivere, basato su dei buoni principi, validi per tutte le persone e per tutti i periodi. È un documento che chiede di essere praticato nella vita. Noi cristiani dobbiamo adottare pienamente questo documento. Ne portiamo la responsabilità.
Testimonianza spirituale
Mi chiedono spesso: chi sono questi dell’ISIS? Tutti ovviamente giudicano questo gruppo, lo ritengono composto da terroristi e criminali. È vero. Ma dietro o dentro di loro, cosa c’è? La mia convinzione è che, per costruire un ponte di pace, bisogna avere un minimo di fiducia nell’altro, anche se è cattivo e pericoloso. Quindi, bisogna nutrire un minimo di fiducia anche in questi pericolosi terroristi.
Il Signore mi ha permesso di vivere questa esperienza. Non può essere un caso. Voglio trasmettere quello che ho vissuto con sincerità, senza odiare e senza giudicare. Voglio solo raccontare quello che io ho vissuto, quello che io ho sentito dentro di me. Penso che ciò possa essere utile per aprire i cuori.