Carlo Fantappiè è un toscano molto verace, professore ordinario di Diritto canonico a Roma Tre e anche docente invitato di Storia del diritto canonico alla Gregoriana e all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi. Abbiamo letto con interesse, scoprendo pascoli semisconosciuti, il suo recente libro intitolato Per un cambio di paradigma. Diritto canonico, teologia e riforme nella Chiesa (EDB, Bologna 2019).
Cinque i capitoli del volume, con una prefazione molto utile a chiarire i termini del problema. Se nel primo l’autore si occupa di connotare il diritto canonico classico, quello tridentino, quello codificatorio, nel secondo si dedica al Codice del 1917, nel terzo alla riflessione dottrinale in materia dopo il Vaticano II, nel quarto all’evoluzione dei rapporti tra diritto canonico, teologia e riforme nell’ultimo mezzo secolo; nell’ultimo l’Autore tira le conclusioni.
Fantappiè è esplicito nella prefazione: l’esigenza che lo muove è quella di «risalire alle cause della situazione attuale, caratterizzata da una separazione di fatto e da una sorta di incomunicabilità» tra diritto canonico e teologia, «per tanti secoli in piena sintonia» tra loro, in «un’alleanza che aveva prodotto sia feconde integrazioni dottrinali sia incisive riforme istituzionali». Qui l’autore avanza l’ipotesi che tale convergenza potesse derivare dal «carattere plastico, flessibile, elastico che il diritto canonico ha lungamente mantenuto» prima di essere “ingabbiato” nella “forma-Codice”, che ha trovato pieno adempimento nel Codice del 1917.
Si può ben pensare che le conseguenze “indesiderate” di tale “ingabbiamento” sui rapporti tra diritto canonico e teologia stiano emergendo “con particolare nettezza” dopo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio a papa. È un Pontificato questo che «introduce forti stimoli e spinte verso il rinnovamento della Chiesa». Ma «al contempo solleva, in una cerchia non ristretta di fedeli, problemi di giustificazione storica e teologica delle riforme».
Una pietra miliare è costituita dal Codice del 1917, che – nota Fantappiè – «non è nato all’improvviso per un problema contingente», ma da un dibattito di secoli sulla necessità di una riforma legislativa della Chiesa, emersa chiaramente anche durante il Vaticano I. In effetti la legislazione ecclesiastica giaceva “in uno stato di confusione e di incertezza». È papa Sarto che nel 1904 ha avviato tale riforma, adottando la forma-codice e accompagnando i lavori con la consultazione dell’episcopato. Il pontefice, rileva Fantappiè, opinava che «la codificazione fosse lo strumento più adatto sia per comunicare ai fedeli le leggi ecclesiastiche nel modo più diretto, semplice e chiaro, sia per offrire loro norme precise e sicure nell’insegnamento, nell’amministrazione delle diocesi, nel’esercizio della giustizia canonica». Osserviamo che, a un secolo di distanza, il problema si pone urgentemente di fronte a chi vuole invece rovesciare tale visione, smantellando de facto il diritto canonico per privilegiare la volatilità di una prassi attenta soprattutto alle priorità del mondo.
Papa Sarto poi doveva tenere conto ai suoi tempi del contesto storico in cui viveva il Pontificato romano, «assediato dagli Stati-Nazione». Perciò il Codice canonico del 1917 «può essere interpretato come uno strumento di contrasto» contro la pretesa di assoggettare la Chiesa all’ordinamento di tali Stati. Anche sotto il profilo delle relazioni internazionali il nuovo Codice può essere considerato «come un tentativo della Chiesa di legittimarsi nell’ambito internazionale come ordinamento primario, autonomo, indipendente». Inoltre, continua l’Autore, «il Codice ha una forte motivazione istituzionale e amministrativa della Chiesa», legandosi alla profonda riforma delle strutture centrali e anche di quelle periferiche (vedi rafforzamento delle conferenze episcopali e creazione delle curie diocesane).
Dal 1917 di acqua ne è passata molta sotto i ponti e Fantappiè lo evidenzia bene nello sviluppo del volume, riandando ampiamente al dibattito sulla nuova codificazione del 1983 e dando così voce ai maggiori canonisti del tempo come ad esempio Eugenio Corecco per il quale la riforma degli anni Ottanta «ha cambiato nella sua specie la codificazione stessa», grazie a «un nuovo gene innestato sul tronco comune alle codificazioni ottocentesche e al nuovo Codice del 1917». Un’affermazione che Fantappiè ritiene forse un po’ esagerata, non tenendo conto il canonista ticinese (poi vescovo di Lugano) «della permanenza di una grande quantità di norme del Codice precedente nonché dei difetti di coerenza e di sistematicità».
Vale la pena di citare quanto scrive nel 1975 il cardinale Pericle Felici: «Il Codice rappresenta una particolare forma di presentare le leggi, certamente la più moderna (…) che offre molte comodità, prima fra tutte quella di conoscere subito e in maniera precisa la legge vigente. Ma tale forma non è priva di pericoli e di disagi, ad esempio quello di vedere soffocato lo spirito della legge dalla formulazione di essa quasi per un processo di cristallizzazione».
A noi sembra che sostanzialmente il dibattito sia ancora oggi dominato (più che mai) da tale dilemma, così ben individuato da Pericle Felici. Carlo Fantappiè i suoi suggerimenti, derivati da una lunga esperienza, non li lesina ai lettori. Che auspichiamo vadano ben al di là della (ristretta) cerchia dei canonisti e dei teologi.
C. Fantappiè, Per un cambio di paradigma. Diritto canonico, teologia e riforme nella Chiesa, EDB, Bologna 2019. Recensione pubblicata sul sito «Rosso Porpora» il 6 marzo 2020.