Con Privarsi del piacere. Nietzsche e l’ascetismo cristiano (EDB, 2020) Bertrand Binoche, Professore di Storia della Filosofia Morale all’Università Paris 1 Panthéon – Sorbonne, ci porta nel cuore di una delle tematiche indispensabili per conoscere Nietzsche, ovvero la critica di quello che gli definiva «ideale ascetico». Per la prima volta essa appare, sulla scia della rottura con Wagner, nei §§ 136-144 di Umano, troppo umano, per poi fare spesso ritorno, qua e là, secondo la natura rapsodica di questo autore, prima di trovare la sua definitiva e magistrale orchestrazione dieci anni più tardi, nella terza dissertazione della Genealogia della morale (1887).
Ci si potrebbe, e dovrebbe, per prima cosa chiedere come mai Nietzsche si sia tanto interessato alla tematica dell’ascetismo; e, prima ancora, bisognerebbe pensare quale senso Nietzsche attribuisse all’ascetismo. Egli si chiede che cosa significhino gli ideali ascetici: la questione diventa quella di identificare i tipi che sono stati, per loro natura, costretti a valorizzare l’ascetismo, conferendogli un significato tale da favorirne la diffusione. L’artista wagneriano, il filosofo antico, il prete cristiano e lo scienziato hanno tutti, contro ogni evidenza, qualcosa in comune: tutti sono favorevoli all’«ascetismo», ma la medesima parola e le medesime pratiche, e tra queste prima di tutto la solitudine, e poi la frugalità e la castità, vengono da loro intese in modi diversi. Per questo Nietzsche pone come titolo della terza dissertazione la domanda: «Che significato hanno gli ideali ascetici?». Notiamo subito che questo è un problema che si declina al plurale: ovvero, non si può essere pro o contro l’ascetismo tout court, perché, a rigore, l’ascetismo non ha un solo senso, ma molti. Tuttavia, è vero che uno di questi significati si è imposto sugli altri: è quello del sacerdote. Questa è, secondo Nietzsche, la catastrofe che ha fatto della terra «la stella ascetica per eccellenza» (der eigentlich asketische Stern), o, se vogliamo dirlo in maniera più brutale, «un asilo di pazzi» (Irrenhaus), convinti di essere colpevoli in un mondo corrotto.
Ma da dove viene, a Nietzsche, l’interesse per l’ascetismo? Senza dubbio, ogni filosofo incontra la questione della religione, e, a partire dall’avvento del cristianesimo, incontra anche la questione della mortificazione, della penitenza, dell’umiltà; ma è falso dire che ogni filosofo si sia posto la questione dell’ascetismo: e ce lo dimostra un piccolo sondaggio filosofico. Quello di «ascetismo» è un concetto relativamente tardo: l’inglese asceticism appare nel 1646, ma ascetism solo nel 1850; e l’italiano «ascetismo» non viene registrato che nel 1761, mentre in tedesco Asketismus non sembra esistere prima del 1803; nel Dictionnaire historique de la langue française, inoltre, non vi sono occorrenze del sostantivo ascétisme anteriori al 1818. Forzando un poco la mano, si potrebbe dire che «ascetismo» è piuttosto il nome di un problema che sopraggiunge con quella che i tedeschi chiamano Sattelzeit, quella transizione epocale avvenuta fra 1750 e 1850.
Tuttavia, è anche evidente che il problema è nato prima di Nieztsche: egli non l’ha inventato, ma il nostro lo coglie in un momento in cui si afferma come un tema di attualità, sebbene, secondo Binoche, egli non sembri ben cosciente di questa attualità. La domanda: perché mai Nieztsche si è tanto interessato alla questione dell’ascetismo?, si sdoppia quindi in due interrogativi ben distinti: il primo riguarda il senso che Nietzsche ha attribuito alla domanda; il secondo, più interessante, è da dove arrivi a Nietzsche il problema dell’ascetismo, che egli non ha certo creato ex nihilo. Ma, per uno strano paradosso, il filosofo-filologo lo ignora, tanto che si potrebbe dire che la storia del concetto di ascetismo costituisce il punto cieco della genealogia dell’ideale ascetico. Ed è questo punto cieco, nella sua portata, che Binoche si propone di valutare in questo agile volumetto: non solo per il piacere, come avrebbe detto G. Deleuze, di far fare a Nietzsche «il figlio a sua insaputa», ovvero di coglierlo alle spalle; ma soprattutto, perché la storia del concetto di ascetismo è ricolma di sfide che il filosofo stesso non era in grado di cogliere pienamente.
Sicuramente, Nietzsche rovescia il cristianesimo in modo assolutamente non banale: egli, infatti, non rivaluta in modo per così dire meccanico il piacere contrapposto alla sofferenza volontaria: il § 225 di Al di là del bene e del male richiama infatti, uno accanto all’altro, utilitarismo, eudemonismo, edonismo… e pessimismo. In altre parole, Bentham e Schopenhauer: la stessa battaglia! Infatti, secondo Nietzsche entrambi concordano sul carattere decisivo dell’antinomia piacere-dolore e sulla necessità di evitarla, in un modo o nell’altro. In fondo, anche secondo Schopenhauer è per soffrire di meno (volendo godere) che bisogna fare soffrire se stessi (privandosi del godimento); ma a questo Nietzsche oppone un’altra distinzione, ovvero quella tra potenza e impotenza: «Piacere e dispiacere sono mere conseguenze, meri fenomeni secondari – ciò che l’uomo vuole, ciò che vuole ogni piccolissima parte di un organismo vivente, è un di più di potenza» (Frammenti postumi, primavera 1888, 14 [174]).
La potenza, a sua volta, non si accresce se non attraverso la vittoria ottenuta su delle resistenze, le quali implicano una sofferenza, ma in tutto e per tutto positiva, perché essa stimola il desiderio di accrescere la potenza: occorre dunque valorizzare la sofferenza, ma non per punirsi, e nemmeno per soffrire di meno, bensì nella misura in cui essa comporta la presenza di un ostacolo e dunque uno sprone, diremmo quasi una eccitazione della volontà. E se l’ostacolo risiede in noi stessi? A questo punto, l’uomo potrebbe credere di combattere in se stesso una natura intrinsecamente corrotta: ed ecco qui l’ascetismo cristiano. Quella che secondo Nietzsche è la «catastrofe cristiana» viene dal fatto che l’uomo, sprovvisto di essenza, scava in se stesso e colloca in questo nuovo spazio un essere non meno immaginario che chiamerà «anima», dal quale – da duemila anni – stilla quel veleno che ci ammorba. Ma la presenza dell’ostacolo in sé può anche significare che in se stesso il superuomo deve superare l’uomo: «L’uomo è qualcosa che deve essere superato» (Così parlò Zarathustra): in me, l’ostacolo è allora l’uomo nella misura in cui l’«uomo» è precisamente il cristiano ascetico; è allora sull’uomo in me, allora, che la volontà deve esercitare la sua potenza e ciò non può darsi senza dolore.
Paradossalmente, la malattia stessa può giocare una funzione positiva in questo senso, e Nietzsche stesso non smette di evocare i suoi problemi di salute: ha saputo superarli e se anche ha conosciuto la più terribile malattia, egli non è mai stato «malaticcio» (krankenhft): il cristiano, invece, è ‘malaticcio’ per definizione, perché percepisce la natura sotto la specie della corruzione. E allora, occorre superare la distinzione fra dolore e piacere, e chiedersi invece che cosa sia buono e che cosa sia invece cattivo. Buono sarà tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa nell’uomo. Cattivo, invece, è tutto ciò che ha origine dalla debolezza. E così, in una lettera del 1 gennaio 1883 all’amica Malwida vin Meysenbur, Nietzsche afferma: «Un “santo stravagante” come me, a tutti gli altri pesi e alle altre forzate rinunce ha aggiunto il peso di un volontario ascetismo (un ascetismo dello spirito difficile da mantenere)».
Insomma, un atteggiamento ben diverso dal moderato ascetismo e dalla fortificazione d’intenti che viene richiesta a noi oggi, in questa strana primavera 2020: stare comodamente sul divano, leggendo, magari proprio Nietzsche.
Bertrand Binoche, Privarsi del piacere. Nietzsche e l’ascetismo cristiano, EDB, Bologna 2020, 72 pp., 8,50 euro. Recensione apparsa sulla rivista di cultura online Pangea il 17 marzo 2020.