Per essere sinodali, occorrono tutte le virtù cristiane; tuttavia, è pur possibile selezionarne alcune, quelle più vicine all’esperienza sinodale. Anzi, necessitano non virtù singole, ma coppie di virtù perché queste hanno bisogno di bilanciarsi e di rafforzarsi all’interno di un fruttuoso dinamismo dialettico. In particolare, tre coppie di virtù sembrano essere connotate da maggiore pertinenza e urgenza in vista della sinodalità: umiltà-attenzione, accoglienza-convivialità, ascolto-dialogo.
Umiltà e attenzione
1. L’umiltà, base dello stile sinodale. A ragione Simone Weil ha osservato che l’attenzione è imparentata con l’umiltà. La loro è una parentela che non s’evidenzia subito, ma è sicura e stretta: sono due virtù gemelle. «Come quella è intransigente: spogliata di un interesse parziale, misurata interamente da ciò su cui si concentra, l’attenzione è figura eminente di spiritualità, poiché essa è l’estrema passione della ragione e la più radicale purificazione della passione».[1]
Conviene qui iniziare a paragonare umiltà e sinodalità perché l’umiltà ha una precedenza non di dignità ma di necessità.
È infatti inautentica una vita cristiana senza umiltà; essa è basilare, è la “madre” di tutte le virtù perché le rende possibili, le nutre, le sostiene e le collega in forte unità; è per questo che sant’Agostino vede «in essa sola, l’intera disciplina cristiana».[2]
L’umiltà è necessaria, pertanto, anche per la sinodalità, che è un modo di essere e di fare: senza umiltà non si riuscirebbe ad essere sinodali perché mancherebbe la disponibilità a confrontarsi con gli altri con libertà interiore; mancherebbe la capacità di rinunciare alle proprie ubbie per aprirsi ai punti di vista degli altri; non sarebbe possibile il lungo esercizio della collaborazione, dell’emendarsi, del chiedere scusa e perdono le cento e cento volte che è necessario farlo, durante i duri cammini sinodali.
2. L’attenzione, l’eleganza della carità sinodale. Per la sinodalità occorre essere capaci d’attenzione, che sono il tendere in, l’in-tendere a, l’attendere: sono tutti movimenti d’allontanamento da sé, di apertura all’altro, di deconcentrazione da sé e di concentrazione sull’altro, di disponibilità generosa verso realtà che sono al di là di se stessi per dedicarsi ad esse, lasciandole essere al massimo se stesse e attendendo che si facciano pienamente presenti, cosicché solo quando quelle realtà fuori di sé (raggruppamenti ecclesiali, persone, situazioni, tempi, cose) sono al massimo se stesse e sono al massimo presenti a noi, allora la fatica dell’attenzione è premiata.
L’attenzione, quando non è solo un dinamismo dello spirito, ma virtù cristiana ed ecclesiale, richiede un’ottica di fede e si capisce meglio questo perché l’attenzione virtuosa serve per realizzare uno stile cristiano-ecclesiale che è la sinodalità.
L’attenzione è dote che indica la maturità umana ed è anche realtà che s’accosta alle profondità del mistero e la sinodalità, a cui serve, è pure essa realtà che s’approssima al mistero, perché è imitazione della vita trinitaria. «Essa è una lucida presenza a se stessi che diviene discernimento della presenza del Dio che è nell’uomo».[3]
3. Attenzione e umiltà si compenetrano. La virtù dell’attenzione, come l’umiltà, fa semplici, essenziali, sobri: «L’attenzione è un lavoro di “svuotamento”».[4] Un cuore, una mente, una mano ingorgati di sé, di residui più o meno ampi di egoismo, di culto del proprio pensiero non sottoposto a confronto e a dialogo, di interessi e tornaconti magari larvati impediscono di aprirsi all’altro nella disponibilità sinodale. L’attenzione permette e facilita la sinodalità perché è lo sforzo di scorgere la presenza di Dio nascosta nell’uomo, per dedicargli ossequio creaturale, passando per la “mediazione” dell’uomo.
L’attenzione è, dunque, l’avventura spirituale della ricerca di Dio, il quale si fa trovare sulla via bianca dell’umiltà attenta e dell’attenzione umile che conduce a comportamenti ecclesiali corretti, fraterni, evangelici, in una parola sinodali. Perciò l’attenzione è essa stessa umiltà (perché impone l’arretramento rispetto all’altro), è penitenza (perché impegna in una dura fatica spirituale), è fede (perché incammina alla ricerca dell’invisibile Dio), è ascesi (perché impone un argine allo sfrenato desiderio), è preghiera (perché, scoprendo Dio nell’altro, lo si invoca), è adorazione (perché, riconosciuto il Signore, ci s’inginocchia alla sua misteriosa presenza), è carità (perché ricerca l’amato, l’atteso), è missione (perché è un andare). Insomma è virtù sinodale di grande pregio.
Accoglienza e convivialità
La seconda coppia di virtù sinodali vive di due riferimenti sacramentali: il battesimo, che fonda l’accoglienza; l’eucaristia, che giustifica la convivialità. La precedenza temporale e logica (c’è anche una “logica” dei misteri che poco rispettiamo) del battesimo sull’eucaristia, stabilisce il movimento virtuoso che dall’accoglienza porta alla convivialità: si è accolti al fonte battesimale per fare l’esperienza della convivialità alla mensa eucaristica. L’intima compenetrazione fra queste due virtù fa dire che l’accoglienza è virtù germinalmente eucaristica e la convivialità è virtù compiutamente battesimale. Di queste forti e decisive dinamiche sacramentali ci sono risvolti sinodali ben dimostrabili.
Se l’uomo è un essere di attesa, un essere di vigilia, un essere d’accoglienza, per ciò stesso è una creatura sinodale: egli ha bisogno di accogliere e di essere accolto, di stare insieme ad altri simili e di camminare insieme a loro.
C’è una fondazione antropologica al fondo di ogni esperienza sinodale, ma si tratta di un’antropologia intessuta del mistero battesimale: l’uomo comincia la sua incorporazione a Cristo col bagno generatore del battesimo e lì il suo bisogno creaturale di sinodalità prende radici e motivazioni cristiane; ed è lì che nasce la Chiesa come soggetto sinodale e come spazio santo dentro cui poter esercitare la sinodalità. Nel battesimo è perciò motivata la virtù dell’accoglienza: chi nasce nell’accoglienza battesimale è chiamato ad esercitare la virtù dell’accoglienza. Tale virtù permette d’essere sinodali, ossia di stare insieme nella «casa dell’uomo» (E. Bloch) e nel tempio, ma anche di camminare insieme sulle strade del mondo dando un segno del Regno che sta venendo.
La virtù della convivialità, quale virtù tipicamente eucaristica, che nasce e s’irrobustisce dalla frequentazione del convito pasquale, si fa riconoscere per un atteggiamento consequenziale di calda e fraterna intesa, di sincera e partecipe amicizia, di mutua e profonda solidarietà. Di tutto questo vive la sinodalità.
La confidenza dell’appartenenza alla stessa famiglia ecclesiale, per essere nati dallo stesso letto nuziale (fonte battesimale) e, soprattutto, per essere commensali alla stessa cena di famiglia (altare-mensa), pretende dai cristiani un atteggiamento consequenziale di rispetto affettuoso, di tenera fraternità, di costruttiva reciprocità: è così che si può salire all’amorevolezza della convivenza. E questa è la sinodalità cristiana ed ecclesiale che assume, ancor più, altri colori di mistero.
L’unica mensa eucaristica crea ed esige lo stile conviviale, che è uno squisito stile sinodale che porta ad accogliersi l’un l’altro, rendendo così possibili il vicendevole servizio tra i fratelli e la missione per espandere e radicare la carità salvante di Dio nel cuore degli uomini, nelle loro opere e nei loro giorni.
Ascolto e dialogo
Chi vuole essere sinodale taccia, ascolti e dialoghi. Ma è giusto dire: chi vuol essere sinodale? In verità non è facoltativo esserlo. Di conseguenza, dovendo essere tutti e sempre sinodali, si sia disposti ad abitare anzitutto il silenzio,[5] a praticare con inesausta pazienza un profondo e delicato ascolto, ci si dedichi perennemente a dialogare con rispetto e fraternità.
Come s’intuisce, ascolto e dialogo sono termini che vanno aiutati da un terzo termine (di per sé è il primo termine): si tratta del silenzio che fonda l’ascoltare e il dialogare. Intanto silenzio e ascolto sono reciproci. Dovendo essere sottili, a questo punto, si scorge un legame diretto e costante tra silenzio e dialogo: «Il silenzio è qualche volta tacere, ma il silenzio è sempre ascolto».[6]
La reciprocità silenzio-ascolto porta a implicare una terza parola, quella del dialogo: il silenzio sta all’ascolto come l’ascolto sta al dialogo.
È vasto il campo del silenzio ascoltante; esso, prima di aprirsi al servizio dell’ascolto d’altri, vuole porsi come ascolto interiore in colui che si dispone al dialogo: «La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla».[7]
L’essenzialità del legame silenzio-ascolto viene confermata dal loro rovescio; si constata che il venir meno del silenzio va ponendo gravemente in crisi anche la capacità di ascolto e, di conseguenza, l’esperienza del dialogo: chi non tace mai non ascolta e chi non ascolta non riesce a dialogare, ma soltanto a confliggere e a scontrarsi.
Saper ascoltare è competenza nella scienza della comunicazione ed è bellezza nella sua arte; ma saper ascoltare è anche alta sapienza spirituale e sinodale: «Saper ascoltare è anche imparare a porre delle domande, poiché questo è un modo per tradurre la nostra attenzione e il desiderio che è in noi di ascoltare».[8]
Dall’ascolto nasce anche il dialogo ecclesiale, cioè il dialogo teologicamente motivato, spiritualmente vissuto, comunionalmente condotto, missionariamente finalizzato.
La sinodalità vive di dialogo: non si fa cammino comune sulla via di mutismi paralleli o affiancati; si fa sinodalità parlandosi, intessendo racconti di vita, interrogandosi, rispondendosi, ammonendosi, perdonandosi, consolandosi.
Il problema, allora, non è anzitutto il dialogo, pur essendo essenziale per la sinodalità: la prima urgenza è crescere nella virtù del silenzio e in quella dell’ascolto perché il buon dialogo è semplicemente il frutto di quelle due virtù.
Si potrebbe anche negare che il dialogo sia una virtù: il dialogo è un’abilità, un esercizio umanissimo e cristiano di comunicare, che è reso possibile primieramente dal possesso delle virtù del silenzio e dell’ascolto, oltre che da altre virtù necessarie. Ciò che non deve mancare mai è anzitutto il silenzio che è in grado, fra l’altro, di risanare anche ferite che possono darsi nell’esercizio difficile della sinodalità.
Il pellegrinaggio dell’esodo, che è la globale esperienza della vita di Chiesa, non vive di fretta, ma di passo costante e lento; tale esperienza, dentro cui si svolge il faticoso e meritorio esercizio del dialogo, è una lenta tessitura di rapporti sinodali.
[1] U. Perone, Le passioni del finito, Dehoniane, Bologna 1994, p. 43.
[2] Augustinus, Sermo 351, 3, 4.
[3] E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 1999, p. 72.
[4] U. Perone, Le passioni del finito, Dehoniane, Bologna 1994, p. 40.
[5] Cf. M.G. Masciarelli, Abitare il silenzio, Dehoniane, Roma 1997.
[6] M. Delbrêl, Noi, delle strade, Gribaudi, Torino 1969, p. 83.
[7] Pensiero di A. De Musset riportato in: N. Persichetti, Dizionario di pensieri e sentenze, Paravia, Torino 1919, p. 750.
[8] R. Voillaume, Sul cammino degli uomini, Queriniana, Brescia 1967, pp. 72-73.