Silenzio e attesa: è il titolo della prima lettera pastorale del vescovo di Trento, mons. Lauro Tisi. Silenzio, come condizione della comunicazione con se stessi, gli altri e Dio. Attesa, come percezione di un possibile mutamento di rilievo nella coscienza collettiva: il passaggio da un narcisismo nichilistico a un rinnovato noi comunitario, alimentato dalle diverse appartenenze e diverse sensibilità, anche religiose. Lo snodo fra l’una e l’altra dimensione è la comunità cristiana, consapevole del percorso comune a tutti e del ruolo proprio e insostituibile che la storia le sta affidando.
Vi sono lettere che diventano progetti di un intero episcopato. Ve ne sono altre che fanno emergere specifiche competenze del pastore. Ve ne sono altre, come in questo caso, che rappresentano una comunicazione diretta ai fedeli. Scritte per farsi leggere, affidate, più che al ripetuto riferimento al magistero, alle spalle dei testimoni della fede oggi: da Simone Weil al card. Carlo Maria Martini, da mons. Tonino Bello a don Milani.
Il tentativo è di intercettare la domanda di speranza e di futuro nelle pieghe di una società immersa nella rete e in difficoltà nella comunicazione, suggestionata dalla tecnica e cieca davanti ai poveri, aperta alle emozioni e incapace di memoria, anche relativamente alla propria tradizione di fede.
«Non avrei dubbi da dove ripartire per ritrovare spazi di vera interiorità: dobbiamo anzitutto riassaporare la bellezza del silenzio. Silenzio come condizione primaria dell’ascolto, in primo luogo, di noi stessi. Silenzio come capacità di recuperare il linguaggio delle emozioni, la voce del cuore». «Vi è poi un silenzio come via, l’unica via verso la trascendenza», verso il Dio di Gesù. «Per i primi trent’anni della sua vita è vissuto fuori dai riflettori, nel silenzio della sua casa, scrigno di un dialogo con i genitori, conservato nell’intimo del suo cuore, di sua madre e suo padre».
Solo da qui nascono le vere relazioni, quelle autentiche, non frettolose e non ambigue. Comprensive anche di quella franchezza che è il segno efficace della qualità relazionale, la correzione fraterna, e di quell’istanza veritativa che è l’autentico fondamento della libertà.
Due le emergenze riconoscibili all’impronta. Anzitutto i giovani. «Credo nella forza dei giovani. Ma temo per loro. Perché, come ho già ribadito più volte, essi sono i veri nuovi poveri». Solo recuperando la responsabilità, la fedeltà, l’apertura alla vita e al mistero, la gioia del perdono e l’oblatività sarà loro aperto il senso compiuto dell’esistenza. In secondo luogo, il lavoro. «Il lavoro è dignità. E, quand’esso manca, la dignità ne esce gravemente ferita». Il richiamo alla tradizione cooperativistica, quando molti segnali ne mostrano la sofferenza, non è senza ragione.
Il 123mo successore di san Virgilio intende parlare a tutti, non solo ai credenti. E promette: la lettera sarà l’unico testo previsto per quest’anno. Memore, forse, di una battuta che circolava nel seminario negli anni ’50 a proposito della predica: avere qualcosa da dire, dirlo in fretta e finirla lì.