Non usciremo presto da questa situazione. Dovremo quindi imparare la pazienza dell’attesa e metterla in atto con fantasia e dolcezza dentro le relazioni gomito a gomito a cui siamo costretti. Chi ha perso qualcuno di caro sente, forse per la prima volta nella sua vita, il peso insospettato di non avere riti e gesti per prendere congedo da chi ci ha lasciato.
Ci rimane il nostro dolore, la nostra tristezza, la nostalgia per chi abbiamo perso. Certo, sono anche i momenti in cui riapprendiamo quell’ABC della preghiera – sia essa invocazione, lamentazione, grido lanciato al cielo, oppure semplice pensiero – che sembra essere radicato nella nostra natura più intima di esseri umani.
Celebriamo la morte per poter continuare a vivere
A questa dobbiamo trovare il modo di aggiungere poche forme di ritualità condivisa; e i mezzi di cui disponiamo oggi ce lo permettono. Certo, riunirsi in analogico vuol dire toccarsi, sentire il fremito dell’altro, abbandonarsi alle sue braccia. Dovremo fare senza per qualche tempo, forse anche lungo.
Eppure riunirsi in digitale ci permette di imbastire un piccolo rito in comune, tra distanti. Un testo da leggere, magari le Scritture per chi ne ha dimestichezza e di esse si fida davanti a quello che viviamo. Ma anche una poesia che ci è cara. Una favola se ci sono bambini che partecipano a questa piccola celebrazione via Internet. Poi, se si desidera, una parola, un ricordo, un piccolo memoriale su chi ci ha lasciati.
Solo celebrando possiamo riprendere in mano le redini impazzite del nostro quotidiano. Ci sono momenti in cui solo un popolo sacerdotale può navigare la storia che attraversa. Solo quando alcuni in esso, raccogliendo il desiderio di tutti, fanno in modo che si possa celebrare nelle nostre case: il lutto e la morte; il mangiare e il bere; il giocare e lo scherzare.
E poco importa chi siano coloro che fanno in modo che nelle case si celebri. Uomini o donne; eterosessuali o omosessuali; bambini o adulti; anziani carichi di giorni o adolescenti che ne desiderano molti altri ancora. Non abbiamo un prontuario per momenti come questi e la loro celebrazione. Grazie a Dio verrebbe da dire.
La religione come istituzione è messa fuori gioco, ma il desiderio di dare tenuta al nostro spirito non cessa di bussare alle porte del nostro animo. Apriamogliele e celebriamo, in qualsiasi modo ci venga in mente. State tranquilli, è quello giusto.
Storie di salvezza
Per trovare la forza di fare questo abbiamo bisogno, però, che circolino tra noi storie di salvezza. Ne abbiamo bisogno come del cibo per cui sfidiamo l’intruso invisibile e facciamo ore di coda al supermarket. Le storie di salvezza non sono quelle che finiscono bene.
Sono anzi quelle che puoi osare raccontare anche quando non andrà tutto bene. Sono quelle che riescono a passare attraverso l’oscurità del male e della morte, e far risuonare ancora una parola che abbia senso per noi mentre ci passiamo e dopo che ci siamo passati.
Sono le storie che interrompono le interruzioni del nostro cammino nella vita, perché sanno sostare in esse, sanno comprenderle e farsene carico. E sanno iniziare da esse il racconto di un’altra storia. Sono storie che sanno farci raccontare il peso che grava sul nostro animo, l’oscurità che abita nei nostri cuori. I due discepoli di Emmaus ne sanno qualcosa. Le storie di salvezza sono quelle che ci insegnano a scoprire nel nostro quotidiano gesti, parole, sensazioni, che possono diventare a loro volta una storia di salvezza per altri. Proprio come per i discepoli di Emmaus.
La comunità cristiana, ogni credente, in questo momento ha il dovere civile di mettere in circolo queste storie di salvezza, le sue storie di salvezza per gli altri. Se abbiamo un senso di esistere in passaggi storici come quello che stiamo vivendo, questo è forse quello più urgente.