L’epoca che stiamo vivendo ci esorta a rileggere in modo rinnovato quanto avvenne nella liberazione dall’ultima guerra. Lezioni per l’oggi.
«Era meglio quando eravamo in guerra!». In questi giorni mi è capitato più volte di sentire questa espressione da parte di persone anziane molto spaventate dall’isolamento e dal timore di un pericolo invisibile come quello del Coronavirus. L’Italia, e un numero sempre maggiore di paesi del mondo, si trova a vivere una situazione di “limitazioni” della vita personale e comunitaria che non si immaginava potessero ricapitare.
Una lettura politica
In questi mesi possiamo trovare una consonanza con le settimane della primavera 1945 in cui, nella nostra regione, si aspettava la “liberazione” e la domanda che tutti si facevano era “ma quando si potrà tornare a una vita normale?”. I bimbi di oggi potrebbero farsi raccontare al telefono, dai nonni e dalle nonne: “come era la vita in guerra? Come si trovava da mangiare? Come ci si curava? In quanti eravate in casa? Chi è morto della nostra famiglia durante la guerra?”.
Le risposte aiuterebbero a cogliere quanto è cambiato in Italia in meno di un secolo e ad accorgersi che le cose che, fino a poco fa, davamo per scontate sono state frutto del sacrificio di tanti.
I racconti della guerra e della fame dell’inverno ’45 ci possono aiutare a comprendere meglio quanto sta accadendo oggi nel mondo. Ci sono guerre, come quelle in Siria, che hanno portato in pochi anni alla morte di almeno mezzo milione di persone, per la maggior parte civili; nel mondo la carenza di cibo ogni giorno fa più vittime di quanti ne abbia fatti il Coronavirus fino ad oggi.
Forse ascoltare i nostri nonni che andavano a dormire con lo stomaco che urlava per aver mangiato solo un po’ di castagne o pochi grammi di pane nero ci spronerà a desiderare che quando “si riparte” non sia più per nessuno così. Questi giorni di quarantena non saranno stati inutili se avremo iniziato a sperare che tutti gli altri nel mondo stiano bene, se avremo acquisito una nuova consapevolezza sul fatto che siamo tutti in relazione: o la sicurezza è di tutti o non è di nessuno.
Ma allora è vero “che si stava meglio in guerra?”. Forse proprio l’impossibilità di commemorare insieme le date della liberazione è un’occasione per ripensare in maniera profonda alla storia che portò alla nascita dell’Italia repubblicana.
Una guerra iniziata dall’Italia per conquistare e dominare altri popoli del mondo al fine di allargare le proprie possibilità di profitto e di crescita economica; una guerra che aveva trovato nell’attacco all’URSS una forma di legittimazione agli occhi di tanti che vedevano nel comunismo il nemico numero uno; una guerra improvvisamente in casa propria occupata dal nemico tedesco con l’appoggio di non pochi italiani; una guerra risolta da tanti altri venuti da lontano perché da soli non ci saremmo liberati; una guerra in cui la gente stette sempre più dalla parte di chi non aveva voluto la guerra per le sofferenze e atrocità che la guerra aveva portato; una guerra in cui da vinti ci potemmo presentare come vincitori soprattutto per la morte di tanti che si sono sacrificati.
Una memoria selettiva
Allora volemmo tenere solo il ricordo di ciò che era stato buono, di ciò che ci dava orgoglio: la memoria dimenticò quanto non doveva essere Italia. Un oblio che in parte ha funzionato, ne è venuta pace; ma in parte no, come emerge dai tanti problemi che ritornano ciclicamente nel nostro paese.
Forse oggi è l’ultimo treno per rileggere in modo rinnovato quanto avvenne nella liberazione dalla guerra. Raccogliamone le memorie, senza escludere nulla. Cerchiamo di capire quanto avvenne tenendo uno sguardo il più ampio possibile sia nel tempo sia nello spazio. Impariamo a cercare la strada difficile della riconciliazione che richiede un riconoscimento degli errori propri, non solo degli altri; una valorizzazione dell’impegno e della lotta degli altri, non solo della propria.
Una lettura ecclesiale
In questo contesto, occorre pensare al ruolo avuto dalla Chiesa nella sua dimensione di guida e nella sua dimensione di popolo. A fine febbraio 2020 è avvenuto qualcosa che non era accaduto neppure in guerra: obbedendo alle indicazioni dei vescovi, le comunità hanno accolto, non senza fatica, l’invito a non radunarsi più per la celebrazione comunitaria della messa, cosa inimmaginabile fino a pochi giorni prima.
Di altro tenore è l’invito fatto dai vescovi della regione Emilia-Romagna dopo l’armistizio ad obbedire alle autorità costituite, mantenendo la continuità con una scelta che poteva spingere un prete emiliano a descrivere i soldati passati dalla parte degli alleati come passati dalla parte del nemico (Diario di Enrico Donati).
Abbiamo spesso descritto la Chiesa come dalla parte delle vittime perché, sia durante la guerra sia dopo, tanti preti morirono per il loro ministero sacerdotale. Ma le dimensioni del ministero hanno tante sfaccettature: per ministero non si lasciava sola la gente della parrocchia anche quando il vescovo aveva invitato ad andarsene, mentre altri se ne andavano per esercitare generosamente il ministero nel tempo della ricostruzione; per ministero si benedicevano e sostenevano i battaglioni inviati ad attaccare il nemico, mentre tanti giovani ricevevano dai propri parroci il consiglio di rifiutare la leva; il ministero parrocchiale richiedeva a molti di occuparsi delle questioni materiali dei benefici parrocchiali che assicuravano il loro reddito, con il rischio di essere scambiati per padroni; lo stesso amore per il ministero portava don Giovanni Fornasini a vivere con profonda insofferenza questa dimensione del servizio da parroco; il ministero spingeva alcuni a sostenere una parte politica anche durante la predicazione liturgica, mentre per altri era esigenza di ministero lavorare per sradicare i motivi per cui molti avrebbero a lungo votato il partito avverso.
Per ministero oggi alcuni preti muoiono per non aver voluto far perdere il conforto dei sacramenti alla propria gente contagiata da un male invisibile; per lo stesso ministero c’è chi ha dato la vita per colui che, più giovane di lui, avrebbe potuto con più probabilità essere guarito dall’unico respiratore a disposizione. Sono morti per ministero, ma questo non esime la comunità cristiana da un profondo discernimento, sia sul passato sia sull’oggi. Un esercizio di rilettura non per premiare o incolpare, ma per leggere in modo più vero il proprio cercare di stare nelle difficili pieghe della storia.
Ritengo che anche la Chiesa ne avrebbe tanto da imparare, per vivere quell’esercizio difficile della ricerca di una riconciliazione che non è possibile quando una parte si presenta solo come vittima. E le persone affezionate alle vittime non sopportano i cristiani che si arrogano il diritto di insegnare a perdonare.
Non dimenticare
Recuperiamo in questo tempo le tante storie sotterrate per ascoltarle in tutto quello che hanno da dirci, anche nelle eventuali complessità e contraddizioni. Cerchiamo documenti e testimonianze, perché emerga la vita di chi morì non solo alla fine della guerra, ma anche nella lotta che continuò dopo. Facciamolo con uno sguardo che sappia rileggere ogni vicenda dentro una comprensione che non fugge la complessità della storia, disponibile a mettere in discussione narrazioni da tempo bloccate.
La soluzione più semplice è spesso dire che è stata colpa dell’altro: ma questi non sono i giorni per cercare scorciatoie, ma strade per ripensare un cammino trasformato, non più come prima.
Ripensare a tutto questo lo dobbiamo a chi ora se ne va «come foglia sugli alberi d’autunno». Sono quelli sopra gli ottanta, bambini allora con più di cinque anni e che non hanno dimenticato.