È passato del tempo da quando siamo costretti a restare chiusi in casa, privi di ogni forma di quella vita comunitaria, anche ecclesiale, che fino a poco prima ci avvolgeva da ogni parte come un vortice. In questo silenzio surreale, spogliati di tanto, ma non di tutto, vien da chiedersi: “Che cosa è rimasto?”.
Mi viene spontaneo pensare a questo semplice elenco.
- È rimasta la preghiera; anzi, forse un tempo così dilatato ci dà l’occasione per dare spazio alla preghiera e per riscoprirne la forza e il valore, anche in forme nuove.
- La vicinanza a chi soffre:
* la telefonata agli ammalati
* la celebrazione delle esequie, anche se in forma ridotta
* la vicinanza a quelle famiglie di cui conosci la fatica
* i centri Caritas, almeno i più grandi, che reggono l’urto, con tanti sacrifici, ma con un guadagno di stima enorme («la Caritas è forte, una potenza», mi confidava una giovane insegnante che non va in chiesa da anni).
- Restano soprattutto i gruppi che hanno gustato nel tempo una relazione autentica, cioè si sono ritrovati attorno ad una gratuità, ad un senso profondo, ad una chiamata, e sono andati oltre la preoccupazione di autoconservazione e di riproduzione:
* il gruppo degli anziani (il mercoledì solitamente leggono una pagina di vangelo, prima di altre attività; in questi giorni, si contattano gli uni gli altri al telefono);
* il gruppo famiglia di un’altra parrocchia, che condivide in diretta su Zoom la preghiera dei frati alla sera;
* il gruppo dei giovani (per il secondo lunedì, su meet abbiamo condivido la vita di questi momenti e il vangelo del giorno, raccogliendo le domande che questa Parola fa nascere);
* i gruppi del vangelo per adulti, che tentano, anche se appena nati, di condividere a distanza la riflessione su una scheda.
Tutto il resto non è sparito, ma è andato in penombra: cadute le tante attività, sono caduti anche i gruppi e il motivo della loro esistenza.
E del prete, cosa resta? Ha perso il suo ruolo di potere: non ha più uno spazio dove decidere e dove è obbligato a dire l’ultima parola.
- Resta il suo servizio come segno di comunione, come aiuto all’unità: è bella la messa del papa o quella del vescovo, sempre molto apprezzate, ma ogni tanto una parola del parroco (lettera, messaggio, mail…) fa sentire l’appartenenza ad un territorio, fa sentire un’attenzione precisa per questo luogo. Del prete resta la vicinanza a chi soffre, la preghiera personale, la cura di momenti brevi e qualificati di annuncio, che possano dare speranza, che diano testimonianza del Crocifisso Risorto.
- Resta per tutti, infine, la nostalgia dell’eucaristia e dell’incontro fraterno (un piatto di pasta, una partita a calcio, una chiacchierata sul sagrato, un saluto per strada). La nostalgia per un contatto che rende ragione del cuore della fede, che è l’incarnazione. Nostalgia che forse non è di tutti, ma che si esprime almeno a livello simbolico, nel riconoscere che le chiese chiuse sono un segno di tristezza e di privazione che tocca anche chi non vi entra.
Mi chiedo: “Ma è proprio così brutta una Chiesa così? Ma è proprio così brutto questo modo di essere prete?”. Se potessimo continuare, una volta superato il dolore di questo momento, a vivere una maggiore semplicità; a credere nella forza di relazioni umili, che non hanno bisogno di avvisi e di locandine; a scommettere sul vangelo come via potente per diventare umani; a fidarci di occasioni informali di vita e di festa; a mettere al centro sempre e comunque i poveri e i deboli…, forse anche quei genitori, quei giovani, quelle persone che con affanno cerchiamo di raggiungere, si avvicinerebbero senza paura. E forse anche essere prete sarebbe qualcosa di più umano e sereno.