Si sta scrivendo molto, in questi giorni, su Covid-19 e libertà religiosa. L’amara ironia di un virus che fa diretto riferimento alla norma costituzionale che tutela il diritto di libertà religiosa, l’art. 19, induce ad aggiungere un’ulteriore riflessione alle tante che in questi giorni hanno per tema il ruolo delle religioni e della libertà religiosa in tempo di pandemia.
Come nelle epidemie del passato, anche oggi le religioni, per la loro intrinseca – ed etimologica – dimensione collettiva, emergono come protagoniste del contagio, soprattutto nei suoi momenti iniziale e finale. All’inizio, come veicoli di propagazione (la Shincheonji Church in Sud Corea, gli evangelici di Mulhouse …) ed alla fine, come intermediarie, nella linea verticale, di un miracolo liberatorio e, nella linea orizzontale, come custodi di valori preziosi per la coesione sociale nei tempi probabilmente non facili del dopo tempesta.
Tuttavia, pure nel tempo di mezzo, nel tempo eccezionale della sospensione (anche) dei diritti, il diritto di libertà religiosa offre un punto di osservazione sempre eloquente per valutare lo stato del Paese, il rapporto con la sua identità, passata e presente.
Il diritto costituzionale di libertà religiosa in tempo di pandemia
È ben noto, ed è stato sottolineato da più parti, come le misure prese per fronteggiare il COVID-19 abbiano comportato una seria restrizione del diritto costituzionale di libertà religiosa. Si è trattato di una limitazione, per così dire, indiretta, conseguenza necessaria di misure volte a limitare, in primo luogo, la libertà di circolazione e di riunione. Ma è stata la prima volta, dall’entrata in vigore della Costituzione, che l’esigenza di tutela del bene giuridico “salute” ha comportato una limitazione tanto ampia anche di questo diritto così centrale nell’impianto della nostra Costituzione.
Da più parti si è sottolineato come quest’ultima non contempli espressamente, nei confronti della libertà religiosa, che limitazioni motivate dal “buon costume” anche se la ratifica e l’esecuzione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e pure, successivamente, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, hanno comunque reso l’esigenza della tutela della salute, peraltro inclusa nel rispetto dei diritti dei terzi, un limite legittimo alla libertà religiosa.
E poi, soprattutto, come non considerare il diritto alla salute, già “fondamentale diritto dell’individuo” e “interesse della collettività” (art. 32 Cost.), un “valore primario”, “connesso all’inviolabile dignità della persona umana” (Corte cost. 304/1994) e, dunque, legittimo bilanciamento del diritto di libertà religiosa? La pandemia ha anche travolto il limite ai limiti. Mentre si sostiene che il diritto di libertà religiosa non ammette, in via ordinaria, limiti preventivi, le attuali misure restrittive della libertà religiosa sono state, per necessità, anticipate attraverso una fonte – i DPCM sostenuti da decreti-legge – dalla legittimità dubbia e salvata soltanto, pro (strictissimo) tempore, per la sua stessa esilità. Infatti, di fronte al pericolo la salute può essere tutelata solo impedendo, quanto prima, ogni tipo di condotta potenzialmente idonea a recarle un danno irrimediabile.
L’assolutezza della tutela riservata alla salute, in questo caso motivata da un giudizio prognostico dall’esito purtroppo assai prevedibile, ha cosi compresso notevolmente la tutela riservata al sentimento religioso. Lapidaria la lettera dei DPCM dell’8 marzo 2020 (estesa a tutto il territorio nazionale il giorno seguente) che ha sospeso tutti gli “eventi in luogo pubblico o privato”, “compresi quelli di carattere ludico, sportivo, religioso e fieristico”, “anche se svolti in luoghi chiusi ma aperti al pubblico” (art. 1, lett. g) e ha condizionato l’apertura (rectius, l’ingresso, come preciserà l’art. 1, lett. h del Decreto legge n. 19 del 25 marzo) dei luoghi di culto “all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro” ribadendo, tuttavia, ancora una volta, la sospensione delle “cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri” (art. 1, lett. i).
Nonostante talune titubanze che rivelavano la fatica a prendere la giusta misura delle nuove limitazioni (ad es. la “prossimità” al Paese espressa “nell’apertura delle chiese” del comunicato CEI del 10 marzo si trasformava due giorni dopo in una scelta di “responsabilità” nel “chiudere le chiese”), le confessioni religiose si sono adeguate alle disposizioni statali riconducendo queste ultime ad una clausola di salvaguardia di necessità e urgenza conosciuta anche dai diritti religiosi.
Come si è mossa la Chiesa cattolica e cosa le è garantito
Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, ha pesato in tal senso il ruolo moderatore di Papa Francesco che, di concerto con il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio, sta ricoprendo un paradigmatico ruolo di defensor urbis capace di costituirsi in modello credibile ed efficace per i vescovi diocesani (ma, in realtà, anche per le altre autorità religiose) sia evitando “chiusure” intempestive (si vedano i due decreti del 12 e 13 marzo del cardinale vicario per la diocesi di Roma) sia delegittimando le critiche di chi vorrebbe una testimonianza religiosa collettivamente martiriale.
Ma le misure governative hanno anche particolarmente interessato i cultori delle discipline ecclesiasticistiche. Tra questi alcuni hanno lamentato l’accostamento tra celebrazioni religiose ed attività profane, ritenuto lesivo della dignità e rilevanza delle prime. Altri, addirittura, la violazione dell’ordine proprio della Chiesa e della libertas eclesiastica (!) attraverso la sospensione delle celebrazioni e dello stesso Concordato il cui articolo 2 riconosce alla Chiesa cattolica “il pubblico esercizio del culto”, sospensioni sopportabili solo tramite il riferimento (in verità un poco emergenziale anch’esso) ad un’altra norma del medesimo Concordato, l’art. 1, secondo il quale i rapporti tra la Repubblica italiana e la Santa Sede sono improntati alla “reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”.
Si tratta di osservazioni importanti che sottintendono due altre questioni, tra loro collegabili: quanto è speciale la religione e quanto è speciale la Chiesa cattolica? Sono domande sempre aperte, che fondano molte discipline e che non si intende qui nemmeno lontanamente affrontare. Tuttavia, esse suscitano almeno un tentativo di minima, ulteriore, riflessione intorno ai limiti al diritto di libertà religiosa conseguenti alle odierne disposizioni governative.
A questo riguardo si potrebbe, innanzitutto, osservare come la decretazione d’urgenza risponda alla laicità o, meglio, alla cruda secolarità del Covid-19. Il virus colpisce senza distinzioni, nel pieno rispetto del principio di uguaglianza, senza discriminazioni. E le misure governative rincorrono il virus nella stessa direzione: corrono per fermare il movimento, la circolazione e la riunione, in qualunque modo motivata. I decreti non chiudono le chiese ma sospendono le cerimonie “civili e religiose”, letteralmente intese come quelle manifestazioni (sacre o profane) che si svolgono secondo un programma o un rito prestabiliti e con l’intervento di un pubblico.
Da questo punto di vista la nota del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, Direzione Centrale degli Affari dei Culti, del 28 marzo scorso, offre un’opportuna interpretazione autentica dei DPCM presidenziali chiarendo come le “celebrazioni (…) non sono in sé vietate, ma possono continuare a svolgersi senza la partecipazione del popolo, proprio per evitare raggruppamenti che potrebbero diventare potenziali occasioni di contagio”.
Del resto – e lo si ribadisce nella medesima nota – la ratio degli interventi governativi, il loro oggetto diretto, non è la limitazione delle libertà (tra cui quella religiosa) ma “esclusivamente” la “tutela della salute pubblica” ritenuta minacciata non dalla esperienza religiosa in sé ma da una delle più tipiche modalità (quella collettiva) in cui essa può prendere – in questo momento molto pericolosamente – forma. Volendosi evitare gli assembramenti, non deve sorprendere che le chiese siano state associate alle scuole di ballo ed alle sale bingo.
Tuttavia, mentre i ballerini e i seguaci della dea fortuna devono rinunciare ad “ogni attività” (art. 1 lett. g DPCM dell’8 marzo), solo al diritto di libertà religiosa il medesimo DPCM riserva una lettera, la i, che evita alle chiese la chiusura prevista per i musei e consente, in (his) extremis, l’apertura dei luoghi di culto in condizioni di sicurezza per i fedeli ed i cittadini tutti. Apertura sofferta e trepidante, perché le condizioni per poterne giovare tendono ad escludere in radice ogni surrettizia manifestazione di una volontà di riunione e comunione materiale: ci si troverà di fronte a(l proprio) Dio fisicamente soli; solo occasionalmente insieme ma distanziati ad altri nel caso in cui, ciascuno secondo le proprie singolari esigenze, si sarà messo in movimento per quelle “comprovate esigenze lavorative” e “situazioni di necessità” che renderanno giustificato lo spostamento personale e, con esso, la personalissima preghiera.
Va da sé che tra queste “situazioni di necessità” non potrà rientrare, direttamente, una generica libertà religiosa, proprio perché l’uscita dalla propria residenza motivata dall’esercizio di tale libertà, quand’anche solo individuale, può dar vita proprio a quelle situazioni aggregative che le disposizioni governative intendono ragionevolmente evitare.
Concordato sospeso?
Tutto ciò ha sospeso il Concordato? Costringe ad invocare il suo primo articolo per rassicurare la Chiesa cattolica e, con essa, la Repubblica? Non mi sembra sia il caso, né che occorra affannarsi in questa direzione. Le misure governative riguardano la dimensione pubblica del diritto di libertà religiosa, la sua dimensione fisica collettiva e la sua incidenza con ciò che può accadere ai corpi di tutti.
Gli articoli della Costituzione che rilevano qui non sono il 32 e il 7, ma il 32 e il 19. Ciò che viene sospeso non sono i riti religiosi né, tantomeno, i riti religiosi di una determinata confessione. Si sospendono le forme assembleari dei riti di tutte le religioni. Siamo nell’ordine proprio dello Stato, in un caso limite di bilanciamento tra suoi beni costituzionali, la salute e, appunto, il sentimento religioso.
Così come è minacciata la salute di tutti, cattolici e non, così esce limitata la libertà religiosa di tutti, cattolici e non. Del resto, in relazione ad una dimensione tanto essenziale del diritto di libertà religiosa, il Concordato – come anche la legislazione contrattata con le confessioni religiose diverse dalla cattolica – non può aggiungere nulla a quanto la Costituzione già garantisce.
Siamo di fronte ad una componente del diritto di libertà religiosa che la nostra Carta fondamentale impone di garantire a tutte le confessioni e comunità secondo il canone dell’uguale libertà.
E i non cattolici?
Ed è per questo che i criteri interpretativi offerti dalla nota del Ministero dell’Interno devono considerarsi come valevoli, in realtà, per le “celebrazioni similari”, per tutti i culti e non solo per la CEI, anche oltre il caso specifico della Settimana Santa dei cattolici. E questo anche nella parte riferita agli assistenti alla celebrazione per la determinazione dei quali, come accaduto per le celebrazioni cattoliche, l’ordinamento statuale rinvierà ai singoli ordinamenti confessionali nell’individuare gli “operai” (Lc. 10, 2) delle varie messi.
Ma è interessante che alcuni commentatori si siano arrampicati sulle impervie vie concordatarie per legittimare provvedimenti che la Costituzione inquadra in una prospettiva più generale, quella che riguarda le componenti essenziali del diritto di libertà religiosa.
Il virus è laico e pluralista, la nostra mentalità – e quella delle nostre prassi – un poco meno. È comprensibile, ad es., che il sistema radiotelevisivo “di Stato” cerchi di compensare la limitazione della libertà cultuale dei fedeli cattolici con un’ampia copertura televisiva dei riti di questa tradizione religiosa. Ben comprensibile, finanche doveroso, ma non può passare inosservato, come un atto dovuto.
Peraltro, anche di fronte agli esiti drammaticamente estremi di questo morbo non siamo tutti uguali. Si pensi soltanto ai circa due milioni di musulmani in Italia che non possono ricevere una sepoltura sensibile alle esigenze della loro fede perché non c’è spazio per loro nei cimiteri. Non c’è spazio perché nella grande maggioranza dei nostri comuni non è previsto che muoia un musulmano. Talvolta, quando qualche spazio c’è, esso è esaurito.
Solo la pietà di qualche sindaco ha prodotto ordinanze, anch’esse motivate da necessità e urgenza, che aprono gli “spazi musulmani” o “non cattolici” (anche questi, in realtà, spesso già insufficienti) ai defunti musulmani residenti in altri comuni.
Ma solo a quelli che possono dimostrare di avere prenotato un volo per la sepoltura in una terra lontana che il virus ha reso definitivamente irraggiungibile. L’italico suolo non è ancora pronto ad accogliere, in pace, i propri musulmani. Il Covid-19 ci riporta, così, all’art. 19 della Costituzione, alla mirabile laicità “all’italiana” ed alla loro ancora incompleta metabolizzazione e traduzione politico-legislativa.
Un’ultima osservazione. Si interpreta spesso questa terribile esperienza nel segno del limite e della privazione. Tuttavia, dal punto di vista dell’esperienza religiosa e, questa volta, dell’ordine proprio delle religioni, mi pare possibile anche uno sguardo differente che vorrei soltanto accennare.
La Chiesa cattolica ha appena concluso il sinodo speciale dedicato all’Amazzonia che ha inchiodato i media sulla questione del diritto dei fedeli all’accesso a ministri mediatori degli strumenti di salvezza sacramentali. Il Covid, che inchioda tutti nelle proprie “camerette” (Mt. 6, 6), ha fatto riscoprire la comunione spirituale e forme antiche di riconciliazione (cfr. la Nota della Penitenzieria Apostolica circa il Sacramento della Riconciliazione nell’attuale situazione di pandemia 19-20 marzo 2020), espandendo e riportando in evidenza quel valore normativo del foro interno che il pontificato di papa Francesco, con lo sguardo all’antica Tradizione rivitalizzata dall’ultima esperienza conciliare, ha posto fin dall’inizio al centro della sua azione “anti-clericale” di governo.
Il virus mette alla prova, così, sia gli ordini degli Stati che quelli delle Chiese, nonché il loro reciproco rapporto osmotico, diventando parte di quel cambio di paradigma che spinge a rivedere modelli di organizzazione e di sviluppo consolidati. Chissà che questo non contribuisca ad una reformatio ecclesiae cruciale non solo per i fedeli cattolici ma anche profetica precorritrice di nuovi assetti politici capaci di resistere alle sirene malate di una modernità tramontata.