Se la morte di Cristo, solo, sulla croce, è stata esperienza di “grazia”, lo può essere anche per tante morti di questo tempo di pandemia.
Le lingue, a volte, perdono le parole. A volte, semplicemente, le modificano, le trasformano. La metamorfosi può essere superficiale o profonda, ma non è mai smemorata. Ogni volta che diciamo grazie facciamo memoria della latina gratia e della greca charis, e rimettiamo in circolo quell’idea di gioia, piacere, riconoscenza, gradevolezza, beneficio, bellezza, dono, eleganza, di cui entrambe le antiche parole erano portatrici.
Al singolare, però, grazia sembra aver compiuto un altro cammino: attraversati i territori della nostra secolare pratica cristiana, nell’uso comune ha finito per appiattirsi nello stereotipo del p.g.r. (per grazia ricevuta). E, così, grazia evoca più spesso, per noi, cera che cola da candele ormai consunte nella penombra di una chiesa – anziché il dinamismo vitale del dono gratuito sempre rinnovato.
Chi ha potuto accompagnare una persona amata nei momenti sublimi che precedono il morire, chi ha potuto tenere stretta una mano, accarezzare una fronte, cogliere l’ultimo respiro – ha fatto esperienza di grazia.
Chi ha lavato con un telo profumato un corpo morto, chi lo ha ricomposto con gli abiti più belli, scelti proprio per quel momento – ha fatto esperienza di grazia.
Chi ha accompagnato una bara nel dolore dell’ultimo saluto, consacrando alla morte lacrime piene di vita – ha fatto esperienza di grazia.
Grazia è vivere la vita nel segno della riconoscenza – niente di più.
Viene in mente, in questi giorni di pandemia, lo strazio delle troppe morti in solitudine, lontani dalla propria casa e da propri cari, dagli oggetti e dalle persone che, riepilogando in sé la propria storia e la propria vita, danno un senso nella direzione della grazia anche al morire.
Viene in mente la tragedia dei corpi rinchiusi dentro sacchi di plastica e deposti sul pavimento, in attesa di una bara. Vengono in mente le bare sui camion…
Poi arriva la lettura della Passione di Gesù e riascoltiamo la sua implorazione: Elì, Elì, lemà sabactàni? Gesù è morto da solo. Nessuno gli stringeva la mano, gli detergeva il sudore, gli sussurrava in silenzio parole d’amore e di conforto.
Personalmente ho sempre associato il tormento della croce di Cristo a quello della sofferenza dei tanti poveri cristi e povere criste che, nella storia, hanno dovuto fare i conti con l’ingiustizia, la violenza, la guerra: la morte di Gesù sulla croce come emblema potente di riscatto e di dignità. Ma, il grido di Gesù – perché mi hai abbandonato? – mi ha di colpo riportato davanti agli occhi i volti di persone care ed anche i volti dei tanti, tantissimi, sconosciuti, che Covid-19 ha costretto ad una morte solitaria e lontana.
Ho sentito che la morte di Gesù nella solitudine riscatta e nobilita anche tutte quelle morti in solitudine. Se è stata esperienza di grazia per l’umanità la morte di Cristo, solo, sulla croce, può esserci esperienza di grazia anche in tutte queste morti consumate nella lontananza dai propri legami e dai propri affetti.
«Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano», narra l’evangelista Matteo. Sulla croce, Gesù è solo. Ma le donne e gli uomini che lo amano, per quanto lontani, continuano a guardarlo, non staccano gli occhi – e il cuore – da lui. Quando le mani non possono accarezzare e raccogliere l’ultimo respiro, anche da lontano si può essere vicini.
Ho sentito che il racconto della passione di Gesù racconta anche le tante passioni vissute in questi giorni dolorosi della pandemia. La passione di Gesù ci aiuta a fare simbolo della solitudine e della lontananza, mentre restiamo in attesa del tempo in cui anche noi, come Maria di Màgdala e l’altra Maria, potremo restare e sostare davanti alla tomba di coloro che abbiamo amato. Il tempo in cui potremo affidare alla grazia del rito tutte le lacrime che abbiamo pianto da lontano.