Il 9 aprile 1945 Dietrich Bonhoeffer veniva giustiziato dal regime nazista nel carcere di Flossenburg. Ne ricordiamo brevemente la figura nel 75° anniversario della morte.
«Fare e osare non una cosa qualsiasi, ma il giusto, / non rimanere sospesi nel possibile, ma afferrare coraggiosamente il reale, / non nella fuga dei pensieri, solo nell’azione è la libertà. / Esci dal timoroso esitare ed entra nella tempesta dell’accadere, / portato solo dal comandamento di Dio e dalla tua fede, / e la libertà abbraccerà con giubilo il tuo spirito» (D. Bonhoeffer, Stationen auf dem Weg zur Freiheit).
Ricorre oggi il 75° anniversario della morte di Dietrich Bonhoeffer, giustiziato il 9 aprile 1945 dal regime nazista nel carcere di Flossenburg. Forse anche nei suoi scritti si potrebbero trovare chiavi non banali per interpretare la fase storica che stiamo attraversando e immaginare, fin da ora, la configurazione di una possibile comunità a venire.
Il cristianesimo vive nella luce del comandamento di Dio e della fede che lo coglie come la benevola origine di una libertà pensata non come un possesso da seppellire gelosamente nell’individualità del proprio ego, ma come quell’abbraccio che, ogni volta di nuovo, ci fa praticare ciò che è giusto.
La presa affettuosa del reale e l’azione che ne desidera la giustizia sono praticabili anche nel confino e nell’isolamento – di una cella per Bonhoeffer, delle nostre case per noi. L’incompiuta dell’Etica si pone esattamente in questa luce, se guardiamo alla storia spezzata di quest’uomo che ha segnato, volente o nolente, tutto il cristianesimo post-bellico.
Vivere i tempi come disposizione di Dio significa, per il credente, poter prendere posizione in essi e agire come il prendere forma di Gesù in mezzo alla vita degli uomini e delle donne che sono a noi contemporanei. Bonhoeffer è consapevole del delicato equilibrio che bisogna mantenere tra il principio teologico della fede e l’urgenza dei tempi in cui essa non può non agire. I tempi non dettano alla fede la sua forma; e, d’altro lato, quest’ultima non può essere estranea e distante dal sentire di un tempo della storia.
«La forma di Cristo giunge alla forma nell’uomo. L’uomo non ottiene alcuna sua propria e autonoma forma, bensì ciò che gli dà forma e lo mantiene nella nuova forma è sempre e solo la forma stessa di Gesù Cristo» (Ethik, 83). L’etica è pratica di questa docile plasticità della fede che cerca giustizia per il suo momento storico, senza «avere le spalle coperte né dagli uomini né dai principi» (220). Il bene concreto, quindi, non può essere che un voler-bene al tempo e al mondo in cui viviamo per generare, così e solo così, una trasformazione degli ordinamenti dati.
L’etica, come pratica nei tempi di Gesù Cristo che prende forma, in noi innesca lo smascheramento di ogni imperativo che sacrifica l’unica realtà possibile dell’uomo e del mondo in nome di un’astrazione idolatrica di un’idea o un ideale. Poco importa quale nome porta l’idolo dell’astrazione – mercato, rivoluzione, capitalismo, nazione, o il nome stesso di Dio.