«Possiamo vivere senza?». O della Chiesa che sopravvivrà alla pandemia
Ai tempi della pandemia, la risposta a come interviene Dio è, a mio avviso, ben incarnata dai tanti parroci ricoverati negli ospedali, come e accanto ai loro parrocchiani, sino all’ultimo respiro. La conta dei preti diocesani deceduti dopo aver contratto il virus raggiunge purtroppo circa un centinaio di persone (particolarmente colpita la diocesi di Bergamo), con un tasso di mortalità venti volte superiore rispetto al resto della popolazione, sia per l’età media del clero che si avvicina ai 65 anni (e i morti mediamente ne avevano 80, sebbene in Campania se ne sia andato anche un prete di 45 anni), ma anche evidentemente per la “vicinanza alle pecore”.
Francesco Ognibene su Avvenire ne ha raccolto i nomi e qualche testimonianza, ricordando che ad essi vanno aggiunti tante e tanti religiosi caduti “in trincea”. Alcune diocesi, come quella di Rimini, hanno pensato a uno sportello psicologico proprio per aiutare il clero in questo momento difficile, in cui tutte le attività e le relazioni devono inevitabilmente essere ripensate. Papa Francesco ha sottolineato una parola: creatività.
Qualcosa di nuovo
Cioè cogliere in modo nuovo che Dio sta facendo una cosa nuova per noi nella storia. La creatività può emergere allora in ambito liturgico, teologico, ecclesiale, pastorale; tra gli esempi, il progetto #lachiesachecè di Martina Pastorelli narra esperienze variegate, dalle suore che pregano sul tetto dei conventi a preti medici che tornano in corsia dopo tanti anni, passando per chi organizza reti telefoniche parrocchiali per chi avesse necessità di ogni tipo. Ma tra il clero serpeggia anche una certa insofferenza per i confratelli che stanno approfittando di questo tempo per non fare più alcunché; qualcuno propone persino una riduzione del loro sostentamento, perlomeno per chi proprio ha staccato la spina.
E, dopo, la Chiesa tornerà a fare ciò che faceva prima, archiviando sbrigativamente questa “brutta parentesi” come se nulla fosse? Ne uscirà più consapevole del dono di questo cambiamento di epoca e della preziosità del ritrovarsi a celebrare insieme l’eucaristia, che è una grazia e non un “precetto” dovuto? Oppure risulterà ancora più irrilevante, perché in fondo anche senza si riesce a vivere comunque?
Giuliano Guzzo osserva come sociologicamente, dopo alcune catastrofi, le persone coinvolte siano tornate alla fede e quindi «anche la disposta chiusura delle chiese, paradossalmente, potrebbe incentivarne una più intensa frequentazione». In alcuni contesti potrebbe effettivamente andare così, ma in altri, persino nella medesima diocesi, potrebbe essere una spinta ulteriore verso la completa secolarizzazione.
Per Antonio Ballarò, dottorando dell’università Gregoriana, «studiare l’impatto dell’epidemia sul cattolicesimo significherà soprattutto verificare se e dove riprendere la parola non sarà stato indolore, in antropologia teologica, ma anche in ecclesiologia». Qualcosa potrà dipendere anche dal tipo di accompagnamento pastorale che sarà dedicato alle parrocchie; il lavoro è quindi maggiore, e non minore rispetto al solito: costringe a ripensare alcuni cardini.
Il primo può essere esemplificato dal vettore ascolto passivo/partecipazione attiva. La stessa messa in streaming può essere vissuta secondo differenti disposizioni del cuore. Un conto è metterla come sottofondo mentre si fa dell’altro, un altro è disporsi con attenta devozione, anche con il proprio corpo, come se si fosse in Chiesa. E magari cogliendo l’occasione per condividere la propria risonanza con il celebrante e con i parrocchiani, mantenendo così una partecipazione – seppur mediata – attiva, in grado di rinsaldare il legame di unità con la parrocchia tutta. La “partecipazione attiva”, del resto, non doveva e non dovrà darsi per scontata per il solo fatto di essere presenti fisicamente alla celebrazione.
Ad ogni modo penso vada suggerito come le messe in TV possano essere, rispetto al nulla, una buona cosa per chi non ha altri mezzi; mentre a chi dispone di una connessione internet o di un breviario occorre fare un passo in più, per una celebrazione domestica della Parola di Dio. Affermare inclusivamente che l’una non esclude l’altra e che i mezzi tecnologici possono consentire una certa interattività non deve però mettere sullo stesso piano la mediazione virtuale di una celebrazione (che può offrire solamente uno spunto di preghiera) e una liturgia viva, in prima persona, possibilmente familiare/comunitaria.
Il nesso liturgia-vita
Un altro, già menzionato, riguarda la sacramentalizzazione della fede che spesso confligge con un’esperienza viva della Parola. Già durante le vacanze estive in svariate parrocchie si viveva una sorta di “chiusura della baracca”, come se anche la Chiesa andasse in ferie. Sia allora, ma più che mai adesso, è bene che questo difficile “tempo vuoto” che ci costringe a sperimentare la mancanza venga vissuto non nello svago né nella noia in attesa che passi presto, ma nella pienezza del Vangelo, alla luce del quale abbiamo tutto l’essenziale per lavorare su noi stessi, come ha suggerito Gero Marino, vescovo di Savona-Noli.
È quindi – osserva Rocco Gumina – un tempo per ritessere le fila tra liturgia e vita, nella quale i credenti celebrano in modo straordinario la liturgia della vita osservando le disposizioni dell’autorità pubblica e contribuendo a salvare vite umane; prendendo sul serio la nostra cittadinanza nella comunità politica che ci ospita, si ha che l’esito di questa è legato a doppio filo con la nostra vera Patria.
La responsabilizzazione del laicato è quindi molto di più che attribuire un ruolo a una catechista, perché riguarda in generale l’impegno di tutti al bene comune, cioè a vivere intensamente la vocazione battesimale, che è sacerdotale (offrire ogni cosa a Dio), profetica (testimoniare in ogni contesto) e regale (far regnare l’amore in ogni relazione). Resta parimenti viva l’esigenza di ripensare la figura e il ruolo del prete, soprattutto a causa delle messe in “assenza di popolo”; ma il Popolo può mai essere davvero assente? Tali messe, impropriamente dette “in privato”, non devono mai diventare “private”, nel senso di esclusive per una cerchia di pochi eletti, fossero anche il prete e il suo cameraman di fiducia.
Il rischio di una riproposizione del modello tridentino, segnalato dalla teologa Segoloni Ruta, non è da sottovalutare: alcune celebrazioni anziché riunire la comunità la dividono; non era forse meglio insegnare a pregare in famiglia e digiunare tutti?
Il momento costringe anche i pastori a una certa distanza fisica; non è allora solo questione di ripensare la liturgia, ma anche la pastorale, per una conversione ad una maggiore prossimità al gregge affidato, condividendo l’uguaglianza del battesimo e delle preoccupazioni in un momento difficile, anziché usare i mezzi di comunicazione per riaffermare l’unidirezionalità del rapporto clericale tra chi, celebrando, comanda e chi, invece, è un mero destinatario delle indicazioni da espletare o della fama dei suoi followers.