Il 27 pomeriggio, in perfetta coincidenza con l’insperato trionfo degli Azzurri di Antonio Conte sulle ben più quotate furie rosse spagnole agli Europei di calcio, ha preso congedo dalla vita Carlo Perdersoli, assai più noto come il nome d’arte di Bud Spencer. Aveva 86 anni, ed è stato uno dei personaggi più popolari nell’immaginario dell’italiano medio, soprattutto delle giovani generazioni e soprattutto alcuni decenni fa: con i suoi film tra il comico e lo spaghetti western quasi sempre in duo con Mario Girotti – Terence Hill, ancor oggi validamente sulla breccia televisiva come don Matteo, ha rappresentato l’altra faccia degli anni Settanta, passati alla storia del Belpaese come uno dei periodi più bui e irrisolti del dopoguerra.
Da una parte, scazzottate sane quanto grottesche che ci finivano per convincere, almeno per un paio d’ore, che il bene è destinato giocoforza a prevalere sul male, tanto più quando è impersonato da un gigante buono di centoventi chili e con il 47 di piede (anzi, di Piedone, in omaggio a una delle sue pellicole più note); dall’altra, il piombo che insanguinava insensatamente le strade delle nostre città e una politica balbettante, incapace di dare risposta ai tanti nodi irrisolti di un paese forse cresciuto troppo in fretta.
Quando Bud Spencer cominciò ad avere fama nel cinema (Lo chiamavano Trinità… è del 1970), in realtà, Carlo Pedersoli, napoletano verace ma poi trasferito con la famiglia in Sudamerica, aveva già vissuto alcune esistenze, e tutte di successo: come campione di nuoto (primo italiano ad abbattere il fatidico muro del minuto nei 100 stile libero), come centro boa di pallanuoto, oro ai Giochi del Mediterraneo 1955, e persino come paroliere raffinato di canzoni interpretate da artisti del calibro di Mimmo Modugno, Ornella Vanoni e Nico Fidenco. Qualche critico sostiene che egli sia approdato al grande schermo quasi per un senso di noia, dopo essersi cimentato in quasi tutto (da parte sua, ammetteva sorridendo che gli unici lavori che non aveva sperimentato erano il ballerino e il fantino): ma il bello doveva ancora venire.
Con Terence Hill avrebbe formato, infatti, la coppia più indistruttibile di un cinema leggero e senza troppe pretese intellettuali, tutt’altro, ma anche ben studiato e in grado di dire pane al pane e vino al vino: uno bello, biondo e pigramente romantico, l’altro grande, grosso e buono fino al midollo. Quasi degli Stanlio e Ollio di borgata, o di saloon. Davanti a titoli come Più forte ragazzi o Altrimenti ci arrabbiamo, o Porgi l’altra guancia, lo spettatore sapeva da subito da che parte stare: un po’ come capitava, e capita, con un altro eroe popolare inossidabile: il ranger di carta Tex Willer; l’unico dubbio era quando sarebbero partiti i primi pugni indirizzati al cattivo di turno, mezzo più diretto e convincente per raddrizzare un mondo che stava diventando sempre più storto.
Se esistesse in Italia un Roland Barthes capace di dare voce ai nostri Miti d’oggi (e non c’è più: Umberto Eco, purtroppo, è morto anch’egli, qualche mese fa), non potrebbe mancare nelle sue pagine la storia extralarge – come la sua taglia – di Bud Spencer, il più amato dagli italiani perché, alla fine, ammettiamolo, c’è qualche tratto di lui in ciascuno di noi: nella voglia di farci giustizia da soli, nella ricerca di una sbrigativa soluzione alla complessità del vivere quotidiano, nel sorriso sornione al sapere che, al nostro fianco, a darci una mano ci sarà sempre il nostro personalissimo Robin (o Stanlio, se si preferisce). Tanto che non ci spiacerebbe far nostra la sua filosofia sulla morte, espressa in questi termini un’intervista di un paio d’anni fa: «Non temo la morte. Dalla vita non ne esci vivo, disse qualcuno: siamo tutti destinati a morire. Da cattolico, provo curiosità piuttosto: la curiosità di sbirciare oltre, come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona. Naturalmente è una curiosità che non ho alcuna fretta di soddisfare, ma non vivo nell’attesa e nel timore». Che, a ben vedere, è una straordinaria professione di fede nella vita, recitata, in effetti, da un uomo che non è mai riuscito a limitarsi all’ordinaria amministrazione.