«Possiamo ben dire che in questo momento la fedeltà (dei religiosi) è messa alla prova. Siamo di fronte a una emorragia che indebolisce la vita consacrata e la vita stessa della Chiesa. Gli abbandoni nella vita consacrata ci preoccupano. È vero che alcuni lasciano per un atto di coerenza, perché riconoscono, dopo un discernimento serio, di non aver mai avuto la vocazione, però altri, con il passare del tempo vengono meno alla fedeltà, molte volte solo pochi anni dopo la professione perpetua. Che cosa è accaduto?». Sono parole di papa Francesco in un libro intervista sulla vita consacrata (F. Prado, La forza della vocazione, EDB 2018).
Né lui né la Congregazione per la vita consacrata hanno nascosto le cifre inquietanti delle uscite: da 2 a 3.000 all’anno. Che cosa sta succedendo alla vita consacrata (800.000 consacrati e consacrate di riconoscimento pontificio e altrettanti di approvazione episcopale) che in questo secolo ha conosciuto per la prima volta una plantatio fuori dai confini dell’Europa?
Troppi se ne vanno
All’interrogativo è dedicato un corposo documento del dicastero: Il dono della fedeltà e la gioia della perseveranza. “Manete in dilectione mea”, Librerie Editrice Vaticana, pp. 170, marzo 2020. Il suo intento è di «elaborare e proporre alcune indicazioni o linee di intervento preventivo e di accompagnamento» (n. 3). Contestualmente, di fornire agli interessati le normative codiciali e della prassi dicasteriale in ordine alle regole da rispettare in tali frangenti.
Su un tema così delicato come la decisione di uscire dalla vita consacrata sono necessari sia uno sguardo attento come un ascolto sincero. Il discernimento dell’interessato, dell’accompagnatore e delle comunità diventa l’invito più insistito. «Prospettare il momento dell’uscita come percorso di accompagnamento vocazionale vuol dire lavorare assieme per un discernimento che continua ad avere senso anche e soprattutto nei momenti più delicati e importanti della vita, in una prospettiva di inclusione, nel rispetto delle diversità delle scelte del fratello e della sorella» (n. 46).
Liberamente si è entrati e liberamente si può uscire, ma la serietà e coerenza vale nell’un senso come nell’altro, vale per il singolo e per la famiglia religiosa. E le regole, come la giusta pretesa del popolo di Dio, ce lo ricordano. Non si può accettare acriticamente l’assenso «del tutto empatico e comprensivo (del nostro contesto sociale) nei confronti di persone che rompono legami di vita assunti in forma irrevocabile» (n. 57).
«Oggi di fronte al venir meno della perseveranza di tanti fratelli e sorelle che con generosità avevano intrapreso la via della sequela, possiamo diventare giudici severi, mettendo in rilievo difetti e fragilità che non sono stati affrontati nella maniera giusta, per cause personali, istituzionali o di responsabilità collettive. Chi abbandona deve porsi serie domande sul perché sia venuta meno la propria scelta vocazionale, e chi resta, sulla coerenza del suo rimanere e su eventuali implicazioni nelle cause di allontanamento e raffreddamento della perseveranza di chi se n’è andato. Siamo tutti reciprocamente responsabili e custodi dei nostri fratelli e sorelle, specie di quelli più deboli, perché siano “radunati in Cristo come una sola peculiare famiglia” e i legami di fraternità devono essere coltivati con lealtà in modo da creare per tutti un aiuto reciproco nel realizzare la vocazione propria di ciascuno» (n. 99).
Scelte di vita e spirito del tempo
La cultura del frammento, del provvisorio, degli «impegni che non impegnano», avvolge la vita consacrata come l’esperienza di tutti. Più specifici sono l’incertezza e il disorientamento che si insinua nel vissuto consacrato. Esso sembra avere smarrito la capacità di attrazione. Ma – come dice il papa – «una sequela triste è una triste sequela». Una delle conseguenze è l’incapacità di avvertire i disagi, le crisi e i malesseri, lasciando andare alla deriva i più fragili. Una situazione che il testo affronta a più livelli. In particolare, la dimensione teologica, ecclesiale, spirituale, personale e comunitaria.
Il Dio cristiano è un Dio fedele. Della fedeltà all’alleanza è impregnata l’intera Scrittura. Gesù ne è il testimone esemplare. Il consacrato entra nel “sì” di Cristo, nella sua piena adesione alla volontà del Padre.
Il documento ripercorre le molte pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento che insistono sulla fortezza propria della fedeltà: dai profeti al vangelo di Giovanni, dalla Lettera agli ebrei a quella di Giacomo. In piena continuità è il magistero ecclesiale. Si ripercorrono molti dei documenti post-conciliari che riguardano la vita consacrata: da Evangelica testificatio a Vita consecrata, da Potissimum istituzioni a Ripartire da Cristo, dalla Lettera ai consacrati per l’anno della vita consacrata a Vita fraterna in comunità.
La fedeltà a Cristo si fonda sul battesimo e si riverbera sulla scelta di consacrazione. «Qui sta il senso della vocazione alla vita consacrata, una iniziativa tutta del Padre, che richiede da coloro che ha scelti la risposta di una dedizione totale ed esclusiva. L’esperienza di questo amore gratuito di Dio è a tal punto intima e forte che la persona avverte di dover rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue mani» (n. 32).
Volàno della perseveranza è la gioia: «Non bisogna dimenticare che la pace e il gusto di stare insieme restano uno dei segni del Regno di Dio. La gioia di vivere pur in mezzo alle difficoltà del cammino umano e spirituale e alle noie quotidiane, fa parte già del Regno. Questa gioia è frutto dello Spirito e abbraccia la semplicità dell’esistenza e il tessuto monotono del quotidiano. Una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne. Ben presto i membri saranno tentati di cercare altrove ciò che non possono trovare a casa loro» (n. 42).
Coscienza e discernimento
Fonti, valori e riferimenti che non sempre trovano concretezza nei vissuti. La crisi di fede vale anche per i religiosi e religiose. Se non positivamente attraversata, può provocare l’uscita. Ancora peggio, quando, in mancanza di coraggio, si continua una vita comunitaria in assenza di Dio. La scelta celibataria viene talora messa in discussione, assorbendo il giudizio mondano che ogni legame indebolisce o ostacola una supposta libertà. Così è per le regole (da osservare), il lavoro (da fare), le relazioni (da custodire). La solitudine può incattivisti in isolamento e la dipendenza da web disorientare. Una non controllata generosità nella missione può sfociare nell’attivismo e nell’individualismo, innestando conflittualità interne non controllate. Si instaura, talora, «uno stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri» (n. 22).
Per questo il testo insiste molto nella formazione personale, nello sviluppo di una identità, «sia nella componente psico-sessuale, sia nella dimensione cognitiva ed emotiva», sia in quella spirituale ed ecclesiale (n. 12). Davanti alla crisi è necessaria una chiarezza orientativa, un sostegno affettivo, competenze professionali e soprattutto «l’esercizio di un discernimento condiviso» (n. 47). Si sta maturando «la consapevolezza di un vero e proprio ministero di discernimento non solo per quanti attraversano il tempo della crisi, ma anche per quanti, nella perseveranza, desiderano rimotivare il senso della propria fedeltà» (n. 49).
Punto di riferimento è una coscienza personale che è in grado di attraversare la prova assumendosi una responsabilità che non può essere lasciata all’improvvisazione. Ascoltare i propri affetti, verificarli in rapporto alla chiamata di Dio, riconoscere la propria vocazione, verificare la propria decisione di vita. «La vita è qui intesa come dono che si converte nel desiderio di una restitutio in vista del bene dell’altro. Si tratta di un processo di conversione che non può prescindere dal comprendere se stessi in profondità» (n. 51).
«Nel paradosso cristiano, nella sua radice profondamente umana, la realizzazione di sé viene offerta a colui che sa di doversi donare senza riserva, fino alla morte», allontanando la pretesa di «continue conferme della scelta abbracciata e senza rimanere succube delle inevitabili paure che si presentano nel corso della vita» (n. 52). Solo così riprende senso e splendore il «per sempre», quello che sembra scomparso nel linguaggio della cultura contemporanea: la scelta non revocabile.
Vita fraterna e diritto
Di grande rilievo è il ruolo dell’accompagnatore, del padre spirituale e soprattutto della comunità. «Come la scarsa qualità della vita fraterna è stata frequentemente addotta quale motivazione di non pochi abbandoni, così la fraternità vissuta ha costituito e tuttora costituisce un valido sostegno alla perseveranza di molti. In una comunità veramente fraterna, ciascuno si sente corresponsabile della fedeltà dell’altro, ciascuno dà il suo contributo per un clima sereno di condivisione di vita, di comprensione, di aiuto reciproco; ciascuno è attento ai momenti di stanchezza, di sofferenza, di isolamento, di demotivazione del fratello, ciascuno offre il suo sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle prove. Così, la comunità religiosa, che sorregge la perseveranza dei suoi componenti, acquista anche la forza di segno della perenne fedeltà di Dio» (n. 37).
La terza parte del testo offre il quadro normativo che regola le diverse forme di sospensione-uscita-rientro nella vita comune. È una parte tecnica, ma molto preziosa per gli interessati e per i superiori che trovano i modi e le forme per sintonizzare le proprie scelte e procedure con quelle riconosciute e praticate dal dicastero.
Si passano in rassegna le varie modalità di separazione dall’istituto: l’assenza legittima e illegittima; il passaggio ad altro istituto; l’esclaustrazione richiesta e imposta, l’indulto di uscita (per voti temporanei e voti perpetui, per religiosi e per chierici), l’istituto della dimissione ipso facto, obbligatoria, facoltativa ecc. Un insieme di norme che, da un lato, chiedono il protagonismo degli istituti e dei superiori e ne limitano le pretese, dall’altro, assicurano gli interessati cerca i loro diritti e le loro opzioni.
Dietro ogni riga si intuiscono l’infinita varietà dei vissuti e delle situazioni, le ferite e le passioni di molti e molte, la preoccupazione di assicurare procedure coerenti e rispettose. Ma anche la difficoltà di alimentare quella corrente calda e vitale che va sotto il nome del carisma, la capacità inventiva e la generosità oblativa di doni spirituali antichi e nuovi. Forse avrebbe giovato uno sguardo parallelo sulle difficoltà e potenzialità del matrimonio e della famiglia e su quel nuovo «stato di vita» costituito dai singoli, i molti che vivono una solitudine senza averla scelta.
La conclusione torna sul tema del “rimanere” giovanneo. «Per evitare il dramma dell’abbandono del discepolato o della possibile sterilità della vocazione, i discepoli sono invitati con insistenza a rimanere. Questo verbo, così caro al Quarto Vangelo, rinvia al desiderio e all’impegno costanti nel corrispondere all’amore di alleanza e nell’aderire allo stile di Cristo». «Rimanere nell’amore, infatti è comprendere anche che l’amore è servizio, è prendersi cura degli altri» (nn. 104-105).
LAICATO E CONSIGLI EVANGELICI
Nei miei corsi biblico-teologici mi capita di incontrare anche laici/e aderenti a istituti secolari, a terzi ordini o gruppi e movimenti simili e mi sono chiesto: se è vero – e se lo sia lo domando perché non sono competente pur con qualche informazione – che loro intento è di vivere il vangelo nella normale esistenza del laico e delle realtà secolari, ha un gran senso che venga esclusa anche tra loro e non solo tra preti e monaci una realtà umana e cristiana così importante come il matrimonio e la famiglia? Ho posto la questione una volta a un responsabile di un istituto secolare: nessuna risposta, anzi il dialogo s’è del tutto interrotto.
Di solito – anche in discorsi magisteriali – si dice che pure quei laici/e si impegnano a vivere i cosiddetti consigli evangelici. Ma che cosa vuol dire? Castità, povertà e obbedienza per sé sono valori, doveri e vocazioni per tutti i cristiani; specifica è solo la maniera di vivere quei valori nel concreto della propria esistenza/vocazione: castità matrimoniale o verginale, povertà globale o relativa, carità in autonomia o in obbedienza anche a un’autorità umana precisa. Solo queste precise modalità si possono chiamare consigli evangelici, anche se ciò andrebbe dimostrato. I valori invece fondamentali che le reggono non sono consigli ma vocazioni comuni per tutti i discepoli di Cristo.
Mi sembra quindi che una maggior chiarezza anche terminologica possa giovare a tutti. O no? E quindi anche a rispondere alla mia questione di inizio.
Buonasera. E’ un bell’articolo ma manca un aspetto che è quello che mi riguarda personalmente. La mia congregazione Figli di Santa Maria Immacolata è stata “occupata” fin agli alti gradi, superiore generale compreso, dal Movimento Neocatecumenale. La Parola di Dio è insidiata dalla parola di Kiko, contagiandola anche nello stile di vita. Così ho ottenuto ufficialmente il permesso di passare alla diocesi, adducendo motivi famigliari reali, in modo che rimango assolutamente nella Chiesa, ma nel mio cuore l’ideale religioso, non annacquato o contaminato, rimane in pieno. Per questo non ho tradito la mia vocazione ma da diocesano sono e rimango religioso in tutto quello che sono e faccio.