Sono trascorsi quasi quattro anni dalle tremende scosse dei terremoti che il 24 agosto e il 26 e 30 ottobre del 2016 hanno devastato il Centro Italia, segnando di morti e di devastazione diffusa le colline dell’Appennino Umbro-Marchigiano e Umbro-Laziale.
Nella archidiocesi di Spoleto-Norcia sono stati duramente colpiti i comuni di Norcia, di Cascia e di Preci, territori carichi di memorie d’arte, spiritualità e cultura portate da in storie e tradizioni, ancora vive, di una umanità tenace ed operosa, fortemente radicata, pronta ad affrontare privazioni e sacrifici, senza perdere in fierezza.
Il terremoto non è memoria ma quotidianità
La Caritas della diocesi ha offerto al più presto ripari piantando tende, materiali e immateriali, in mezzo a una popolazione ferita nell’intimo e provata dallo sbriciolarsi dei punti saldi della propria esistenza: persone care, luoghi fisici e relazionali.
Per noi è calata improvvisamente un’oscurità serale imprevista che ci ha tuttavia consentito di provare un rinnovato stupore per l’alba di ogni giorno nella carità e nella fraternità: queste righe sono per esprimere autentica gratitudine a quelle comunità umane che, in tempi e modi diversi, si sono strette e sono accorse con grande generosità verso la nostra Chiesa, con la Caritas, sostenendo iniziative e attività della gente e con la gente della Valnerina.
Eccoci ora in una nuova situazione di disdetta e di prova del cuore: come accaduto dapprima al Nord Italia e in seguito, seppur in misura minore, nel resto del nostro paese, anche nella Valnerina, ancora fortemente segnata dallo squasso del 2016, si è propagato il contagio da Covid-19. Sinora il male contagioso ha toccato poche persone e si confida di poterne contenerne la diffusione.
Il virus
Certo è che nelle nostre terre alla situazione di emergenza di lunga durata determinata dal terremoto si è sovrapposta l’emergenza da Covid-19: all’irruzione di un male imprevisto e imprevedibile se ne è unito un altro invisibile, col risultato immediato di veder ridotto il bene maggiore della comunione col drammatico effetto di isolamento e di vera solitudine per quanti, specie anziani, continuano ad abitare le nostre stupende colline.
Nel comune di Norcia sono millesettecento le persone che vivono fuori dalla propria abitazione, in soluzioni abitative ancora del tutto provvisorie, ogni giorno chiamate ad affrontare la fatica crescente di vivere separate e distanti dai propri cari e familiari, in un territorio già spopolato dai giovani, dove servizi e aziende sono in chiusura o ormai in trasferimento definitivo altrove.
Nonostante l’emergenza sanitaria di proporzioni ovviamente mondiali, e il riscontro di casi anche a livello locale, il virus è tutto sommato avvertito come il male minore, molto probabilmente perché nelle comunità terremotate è già presente da tempo un altro, per certi versi più devastante: il virus che si annida inesorabilmente in ogni piega della nostra burocrazia.
Il lockdown e la cella
Dopo quattro anni, non solo non si permette di dare corso alla ricostruzione delle case, degli edifici pubblici e dei monumenti, ma neppure di chiudere la fase di emergenza del post terremoto. Quotidianamente ci scontriamo con un sistema troppo spesso sordo alle domande e muto nelle risposte: i risultati sono quelli di una ricostruzione – e soprattutto di una ripresa vitale – ben al di là dall’avvenire.
Per le persone sole e le famiglie costrette nei container e nelle casette prefabbricate del post-terremoto lo slogan IoRestoaCasa potrebbe essere tranquillamente sostituito con IoVorreiRestareaCasa, se fosse possibile. Da quattro anni la gente desidera il ritorno nelle case, nei loro paesi, senza esito e purtroppo senza prospettive.
Le Soluzioni Abitative d’Emergenza [SAE], in maniera palese in questo periodo di distanziamento sociale obbligatorio, mostrano tutti i limiti perché, da un lato, non dispongono di spazi interni minimamente adeguati per poter limitare contatti e contagi tra famigliari e, dall’altro, non dispongono spesso di dotazioni che possano facilitare la comunicazione tra persone anziane. Sono molto simili a celle.
Ovviamente, qualora uno dei componenti del nucleo risulti contagiato, si scontra o si scontrerebbe con l’impossibilità di ossequiare le norme di quarantena: dove potrebbe andare a passarla? Le case di proprietà sono ancora con le macerie, a terra.
La nuova emergenza – tanto più col suo carattere di invisibilità – sta dunque accrescendo la delusione, lo scoramento, la mancanza di fiducia. Sta aprendo un baratro di solitudine che neppure l’evento del terremoto aveva scavato nell’immediato con tale determinazione.
Il buon circolo della generosità
In questa ripetuta sera della nostra umanità in Valnerina desideriamo più che mai nuovi raggi di luce, per poter confidare in nuove albe. Li possiamo ancora vedere. Ne sono convinto. Li ho visti, ad esempio in due donne di Norcia, entrambe infermiere, che pur nella enorme difficoltà che stavano loro stesse vivendo hanno deciso di onorare la professione – e la vita – andando a servire pazienti Covid-19 negli ospedali di Bergamo e di Pavia. La luce del cuore non viene evidentemente oscurata dalla paura. La fiducia nella vita e nel buon Dio non si lascia vincere dalle infezioni.
Non sono in grado di dire con precisione il perché della loro scelta. Ma sono abbastanza sicuro che in loro, come in tutte le persone di queste nostre colline umbre, sussiste la memoria profonda della straordinaria solidarietà e della commovente generosità delle comunità lombarde, in particolare di quelle di Como, di Mantova e di Villa di Serio, che fin da subito, nel 2016, si sono rese prossime condividendo con la Caritas Diocesana bisogni e necessità.
Lo stile di grande umanità e di concreta fraternità, in relazioni di comunione ecclesiale tra le Chiese locali nella fede nel Signore Risorto – pronte sempre a mettere in pratica le opere di misericordia – hanno lasciato il segno nella gente di Norcia. La carità non viene dimenticata. La carità resta. Ritorna con la stessa moneta: d’oro.
- Giorgio Pallucco è direttore della Caritas della diocesi di Spoleto-Norcia.