Si tornerà a celebrare insieme l’eucaristia in Italia come popolo di credenti.
Come riprenderemo dirà se, nella Chiesa, abbiamo imparato qualcosa dalla lunga quaresima che ci ha tenuti senza il buon pane del cammino di fede; ci dirà come immaginiamo il rapporto fra comunità cristiana e celebrazione comune dell’eucaristia; ci dirà quale spazio nella celebrazione verrà lasciato per incorporare l’esperienza del sacerdozio domestico di cui abbiamo dovuto tutti, come popolo, apprendere i rudimenti nel giro di una sera.
Forse, lo vivremo davvero come un giorno di festa – ma dobbiamo farlo come comunità di una Chiesa locale, radicata in un territorio che il virus ci ha fatto riscoprire non quale mero luogo di passaggio furtivo tra mille altri impegni e frenesie sempre più urgenti di un effettivo ancoramento in esso.
Abbiamo un segno per dire di questa celebrazione festiva di tutta una comunità cristiana che fa la Chiesa locale? Questo tenendo conto che dovremo mantenere una distanza fisica tra tutti i partecipanti? Come singoli possiamo pensare di rinunciare a qualcosa ancora per un po’ di tempo affinché emerga, evidente agli occhi di tutti, che celebriamo sempre e solo come comunità convocata intorno alla mensa della Parola e del pane?
Un pensiero azzardato, ma fattibile. Perché nella prima domenica in cui torneremo a celebrare non prevedere una sola messa in tutta la diocesi, celebrata in cattedrale dal vescovo con rappresentanti di tutto il popolo di Dio? Perché, anziché gettarci in «massa» (le virgolette sono d’obbligo stante le percentuali) e voracemente sul pane eucaristico tornato a essere nelle relazioni in cui desidera essere, non attendere ancora un attimo per mettere in atto il principio visibile e liturgico di una Chiesa locale riunita intorno al suo vescovo per celebrare insieme la festa del Signore?
Si darebbe uno stile anche per la ripresa delle celebrazioni nelle singole parrocchie della diocesi, ci daremmo tempo come comunità parrocchiali per iniziare a pensare come e cosa traghettare dell’esperienza liturgica domestica in quella di tutta la comunità. Soprattutto si porrebbe un freno all’istinto di moltiplicare ad libitum il numero delle messe nelle parrocchie per far fronte ai limiti di spazio che in molte chiese si pagherebbe per mantenere quella dovuta distanza fra noi che Francesco ha chiamato la buona «unzione della corresponsabilità per accudire e non mettere a rischio la vita degli altri».
Per la Chiesa e nella Chiesa vale ciò che Francesco ha detto a tutta l’umanità, ossia che le «nostre unzioni, la nostra dedizione… il nostro vegliare e accompagnare in ogni forma possibile in questo tempo, non sono né saranno vani (…). È urgente discernere e trovare il battito dello Spirito per dare impulso, insieme ad altri, a dinamiche che possano testimoniare e canalizzare la nuova vita che il Signore vuole generare in questo momento concreto della storia».
Anche la celebrazione domenicale si deve attrezzare in questo senso, anziché ripetere pedissequamente se stessa mortificando il nuovo che si è generato nel corso dei giorni che stiamo vivendo. Iniziamo noi, popolo credente che celebra insieme la domenica del Signore, ad azzardare esercizi di quella «nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci». Non arrendiamoci alla mera ripetizione del noto che non fa altro che reduplicare se stesso e le proprie idiosincrasie.