Parlo di qualcosa che per me è arabo, e lo è ancora malgrado abbia dovuto balbettare qualcosa in questa strana lingua. Sto parlando del mondo dei socialmedia, del web e quant’altro. Ne parlo non da esperto, tutt’altro. Ne parlo perché sono stato costretto da questo maledetto virus a confrontarmi con un mondo a me alieno.
Eppure, ho dovuto vincere la mia ritrosia. Da sempre ho cercato di rimanere a una certa distanza da un utilizzo sfrenato dei socialmedia. Mi considero un “utilizzatore finale”, scrivo al computer, mando mail, ho addirittura accettato di usare whatsApp con i suoi maledetti gruppi… ma sempre con fatica. Non per una posizione ideologica; apprezzo chi sa muoversi con competenza in questi mondi, ma capisco che non sono i miei.
All’inizio, come un alieno
Due ragioni mi hanno da sempre istintivamente guidato. La prima è la convinzione – che rimane tale e forse ancor più radicata ora – che il Vangelo passa sempre dalle relazioni da persona a persona. Ha bisogno dei corpi reali, insostituibili.
Papa Francesco ha coniato in un’omelia una delle sue frasi ad effetto: «non si può virtualizzare la comunione», e intendeva sia la comunione sacramentale, che quella fraterna, che poi sono indissociabili: nell’incontro (l’assemblea) dei corpi, si riceve il corpo di Cristo e si diventa il corpo che è la Chiesa. La centralità del corpo è uno degli aspetti più preziosi della nostra fede, e che mi sembra dobbiamo tenacemente custodire.
La seconda ragione è il rischio della sovraesposizione. Ho sempre pensato il contrario: non credo che si debba mettersi sul palcoscenico, e piuttosto stare in zone laterali, perché si incontra realmente solo ciò che si deve – a volte faticosamente – cercare.
Amo molto il racconto chassidico dove Dio gioca a nascondino e poi si lamenta perché nessuno viene a cercarlo. Se Dio per rivelarsi si nasconde, forse anche noi non dobbiamo lasciarci trovare troppo facilmente. Non credo al mito dell’accessibilità ad ogni costo, preferisco custodire la riservatezza dell’intimità, dove davvero succedono le cose più preziose dell’umano. E l’intimità messa in scena è oscena in qualche modo. L’ho imparato semplicemente dal Vangelo dove Gesù, che pure non si nega alle folle, sa anche sottrarsi ad esse perché gli incontri veri, le relazioni che guariscono, le parole di rivelazione più profonde chiedono un tempo e uno spazio di intimità.
Ma ho dovuto cedere. Non c’erano alternative e tutti si sono misurati – a mio avviso anche senza misura – con questo modo di comunicare: i preti, i vescovi, il papa… chi ero io per sottrarmi alla prova? E così ho cominciato a muovere i primi passi. Ho creato dei gruppi whatsApp per i parrocchiani e per gli amici; ho fatto una serie di incontri con le piattaforme streaming; ho mandato degli audio con commenti alla Parola di Dio; ho accettato di fare dei brevi video sempre di commento alla Parola o di catechesi per gli adulti.
Dopo i primi tentativi – sicuramente goffi e dilettanteschi –, sento la necessità di qualche prima riflessione. Che cosa è successo in questo viaggio in un mondo nuovo?
Stonature
La prima cosa che ho percepito sono state delle stonature. Lo dico con rispetto, perché comprendo bene le buone intenzioni di chi ha voluto tramite i social farsi presente presso il popolo di Dio perché la Chiesa non rimanesse afona. Ma mi rimane l’impressione di tentativi non sempre ben riusciti.
Da una parte, c’è stata un’invasione di messaggi che, alla fine, crea un senso di rigetto. Per farsi davvero ascoltare, non bisogna parlare sempre e parlare troppo. È mancato il senso della misura.
Poi ho l’impressione che molti messaggi social siano frutto di improvvisazione senza arte né parte. Trasmissioni della messa in streaming prive di una minima cura. Credo che non si sia migliorato di un millimetro la trascuratezza media delle celebrazioni normali, e che anzi questa trascuratezza ora appaia in tutta la sua sciatteria proprio perché amplificata dai media. Trasmissioni televisive senza un minimo di regia, con un pessimo audio, con inquadrature fisse così lente da provocare una noia mortale!
Abbiamo pensato che si potesse semplicemente trasferire quello che facevamo sull’altare o nelle aule per una catechesi senza cambiare nulla. Quello che è parso evidente è, appunto, una stonatura. Qualcuno ha scritto con intelligenza: «Se non cambia con la vita, la liturgia diventa un teatrino».[1]
Se pensavamo che andare sui social fosse una cosa che facilitasse la comunicazione senza cura e attenzione, senza pensiero e intelligenza, abbiamo perso un’occasione e quello che si è fatto potrebbe ritorcersi contro le pur buone intenzioni.
Le opportunità
Detto questo, accettare la sfida chiede di cogliere delle opportunità. Provo a raccontare quello che ho imparato in questo apprendistato artigianale. Preparare un audio, costruire un video da trasmettere, far circolare dei testi nei gruppi social, che cosa mi ha insegnato?
Se, ad esempio, provo a trasmettere una catechesi, comprendo che non posso ripetere pari pari quello che farei con un gruppo di adulti in un salone della parrocchia. Soprattutto mi chiede di essere sintetico – un video che dura un’ora con un relatore fisso che parla ininterrottamente, produce una noia mortale – di saper andare all’essenziale, di cercare le parole esatte e precise. È un’arte che non si improvvisa e chiede molta preparazione e cura. Provando a farlo, mi sono accorto di quanto fossi imbranato, incerto, goffo… al rischio del ridicolo!
All’inizio ho privilegiato dei commenti audio a quelli video. Mi sembravano dire meglio la distanza, privilegiare la parola all’immagine. E credo ci sia del vero in questo. Dovevo usare questi mezzi proprio perché c’era una distanza, perché negarla? Un audio senza immagini dice proprio questo: “ti raggiungo con la voce, ma non possiamo ancora vederci perché siamo lontani”.
Poi mi hanno convinto a provare anche con dei video. La gente era contenta di vedere la faccia del suo parroco e non certo per la sua bellezza! Forse perché la parola ha bisogno di un volto, e chi parla deve anche “metterci la faccia”. Qui le cose si complicano, ma è la bellezza della vita! Eppure, un’immagine, un volto, un setting non si improvvisano. Ci vuole una certa cura.
Un’altra opportunità è quella di garantire una maggiore accessibilità. Anche chi non è presente perché impossibilitato può leggere, ascoltare, vedere. Ma anche in questo caso, l’accessibilità non è una via solo facile. Se si vuole davvero essere più vicini, è una via difficile. Basti l’esempio di un video: l’immediatezza naturale che facilita chi guarda, ha – se fatta con arte – dietro un lavoro pazzesco! Serve un montaggio, sono utili dei testi che sovrascrivino parole che aiutano ad ascoltare,[2] occorre inquadrare da più lati per rendere l’immagine viva… è un vero e proprio lavoro che non si improvvisa.
I rischi evidenti
Da uomo di un altro secolo, vedo con maggior evidenza i limiti e i rischi di questo linguaggio riferito al Vangelo e alla comunicazione della fede.
Il primo è legato a tutti i rischi che comporta l’uso della tecnica, di uno strumento che si interpone nella relazione. Non è una cosa nuova: da sempre usiamo il microfono per parlare in chiesa! Lo strumento serve per amplificare la voce, per compensare i limiti. Chi, come me, ha una voce rauca e poco gradevole, sa bene che un buon impianto voce fa la differenza. Quante volte le persone anziane si sono lamentate perché non riescono a sentire bene!
E lo strumento ha i suoi costi; io, infatti, mi sono trovato spesso a rispondere: “signora, ha ragione, ma rifare l’impianto audio ha un costo che ora non possiamo permetterci! E poi lei perché non mette l’amplifon”?
Scherzi a parte, non è solo una questione di costi. La tecnica non è innocente! Oggi sembra addirittura invasiva. Promette surrettiziamente di vincere ogni limite. È invece nel limite che noi ci incontriamo! Se non mi senti, forse devo guardarti negli occhi, devo alzare la voce, o farmi più vicino…. Fuor di metafora, la tecnica rischia di oscurare quel limite che invece dobbiamo assumere come condizione normale di ogni incontro.
Dicevo poi della cura e del lavoro che stanno dietro ad un uso pertinente dei media. Questo porta a due possibili rischi tutt’altro che remoti.
L’attenzione più al mezzo che al contenuto. Un prete simpatico e bravo che si è distinto nell’uso dei social, in un’intervista, tra le tante cose pertinenti, ha detto: «dobbiamo mettere più impegno non sul cosa dire ma sul come dirlo. I contenuti sono gli stessi da oltre duemila anni». Forse gli è scappata la frase. Non credo affatto che il mezzo chieda più impegno del contenuto e non è affatto vero che questo è sempre lo stesso. È un modo banale di pensare l’annuncio del Vangelo. Il Vangelo diventa ogni volta nuovo nell’atto di essere detto con la lingua dell’altro, e questo chiede di non dare mai per scontati i contenuti, che ogni volta devono essere ritrovati, ascoltati e detti come per la prima volta. Proprio questa è la sfida dei social: parlare un’altra lingua (perché questo sono i media) e scoprire nuovo ciò che è mio patrimonio da sempre. Perché i social sono forse qualcosa di più di un mezzo da usare, sono un mondo da abitare.
Non basta “traslitterare” – come il traduttore automatico di google – qualcosa che rimane sostanzialmente inalterato. Cosa tutt’altro che semplice, perché una lingua straniera non la si impara in un attimo, e forse rimane sempre in qualche modo straniera. La cura del contenuto che viene plasmato nella nuova lingua è forse più delicata del mezzo con cui mi esprimo!
Io rimango dell’idea che le mie energie migliori le debba mettere sui contenuti che non sui mezzi. Magari mi sbaglio, ma questa eccessiva attenzione allo strumento mi sembra pericolosa.
Un ulteriore rischio è connesso – ups! Mi è scappato un termine tipico della comunicazione social! – alla velocità. È un vantaggio ad ogni costo? Non credo. Gli studi sulla percezione dicono ben altro.[3] La lettura veloce – e il mezzo digitale porta in questa direzione – è a scapito della profondità. Ma proprio la mancanza di profondità è il male di questo tempo. La vita interiore, la vita spirituale chiede esattamente il contrario: la lentezza, il silenzio, la calma, lo studio, l’approfondimento.
Da ultimo, rilevo i rischi dell’irruzione dei social nel ritmo della vita. In questi giorni di confinamento i social sono diventati una presenza invasiva. E così anche la vita sospesa che stiamo sperimentando non è affatto una vita calma che favorisca l’interiorità. Accade oggi più che mai che il silenzio, lo studio, la preghiera, il riposo siano continuamente interrotti dall’intrusione dei social. Siamo sempre connessi e basta un bip del telefonino, un’App che manda il suo segnale, e il silenzio cade, la preghiera si distrae, lo studio si interrompe. Questo bombardamento di input digitali non fa che aumentare l’agitazione: siamo tutti come i bambini ipercinetici che non stanno stare fermi un minuto! Non è che questo aiuti la vita spirituale, anche per un prete!
Consigli finali
Che cosa allora ho imparato? Poco e male penso. Mi sento di offrire due consigli semplici e banali.
Il primo è “usare con cautela”. Serve anche un poco di ascesi. Occorre sempre avere tempi e spazi nei quali non siamo connessi e impariamo da capo a stare con noi stessi, a lasciare che la preghiera e il pensiero, la lettura scendano nel profondo. Se non impariamo a staccare, i social diventano i nuovi padroni della nostra vita, anche del ministero di un prete.
Il secondo è farsi aiutare. Lo esemplifico in due semplici modi. Nel fare i miei piccoli e goffi tentativi mi è stato utile e indispensabile la competenza di qualcuno che sapeva come usare questi mezzi.
Tra l’altro, è stato un modo non banale di valorizzare competenze che non mancano nel popolo di Dio. Un giovane della parrocchia e il giovane prete, ben più esperti di me, sono stati indispensabili.
Non è male farsi aiutare, e scoprire che altri sono più bravi di te e volentieri mettono le loro competenze a servizio del tuo ministero. Un secondo esempio di aiuto è l’utilizzo di siti autorevoli e di amici fidati. Il web è un mondo insidioso. Si trova di tutto e molta spazzatura.
Non è inutile avere il filtro di siti che fanno questo di mestiere; SettimanaNews è uno di questi, ci sono rassegne stampa intelligenti, ci sono blog anche nell’informazione religiosa che sono affidabili. E poi gli amici: è un modo di filtrare le cose da leggere e quelle da scartare. Insomma, in questo mondo per me alieno, preferisco entrarci in buona compagnia.
[1] Marinella Perrone, Se non cambia con la vita la liturgia diventa un teatrino.
[2] Basti pensare alla trasmissione della veglia pasquale del papa: il preconio aveva la traduzione che scorreva nel basso del video, e a lato una icona per la traduzione nel linguaggio dei segni. E poi un’attenta regia che faceva scorrere inquadrature diverse, campi lunghi, scene di particolare…
[3] Molto interessante lo studio di Maryanne Wolf, Lettore vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Vita e Pensiero 2018.
Mi fa sorridere l’amico prete. Apprezzabile il suo impegno. Ma la Chiesa nel complesso è in drammatico ritardo. Piaccia o meno queste sono le agorà dei nostri tempi e lì si forma (in positivo o in negativo) una opinione pubblica (ma la ‘opinione pubblica’ nella Chiesa è un tema incandescente e da sotterrare, ne parlava Communio et Progressio nel lontanissimo 1971, poi silenzio…). Il Direttorio sulla Comunicazione della CEI è del 2004. Poi sono venuti i convegni “parabole mediatiche”, poi il vuoto assoluto. I professionisti seri della comunicazione vengono scoraggiati, mortificati, mal pagati. Coordinamento e sinergia non esistono. Questi i risultati: la Chiesa è indietro nella comunicazione. Grande ironia: se questi fossero stati i tempi degli Apostoli, la Chiesa restava al livello di una parrocchia di villaggio della Palestina. Non stare sui social vuol dire non conoscere i dibattiti che lì si svolgono (nel bene e nel male) ed è più semplice così perchè se si conoscessero i dibattiti, le calunnie, le tematiche trattate, bisognerebbe interrogarsi molto. Ignorare paga molto di più, è più facile. Da Settimananews mi aspetto ora una seria serie di interventi che cerchino di alzare la qualità comunicative interna ed esterna della Chiesa. Altrimenti si vada per tentativi senza arrivare da nessuna parte.
Lungo la lettura dell’articolo ho continuato a pensare ad un eventuale commento di p. Spadaro che spesso ha parlato di nuovi media come “ambienti” da abitare, necessariamente.
E’ vero quello che sottolinea il post sui rischi, in particolare di un’alfabetizzazione ancora carente da parte dei preti e non solo loro, ma la domanda è una sola: come si pensa di migliorare la situazione?
Rimboccarsi le maniche e imparare, per quello che si può, da adulti consapevoli dell’oggi. Non ci sono ricette da proporre, solo fatica e buona volontà. L’attuale momento richiede creatività e pazienza da parte di tutti. Sì, a cominciare dai cristiani chiamati a leggere e interpretare i segni dei tempi.