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giornata vocazioni

Quest’anno vivremo la “Giornata delle vocazioni” in tempo di pandemia. Occorre guardare allo sbocciare di altre vocazioni accanto a quella presbiterale.

Sono ormai settimane che le misure restrittive dovute alla pandemia ci stanno facendo portare avanti in modo diverso la nostra vita e la nostra fede. I giorni passano, le settimane si susseguono. Alcuni fedeli, che già non hanno potuto ricevere le Ceneri per l’inizio della Quaresima, rischiano, forse, di non poter neppure celebrare la solennità di Pentecoste. Si vedrà!

Nel frattempo, siamo arrivati già alla Domenica del Buon Pastore che coincide con la Giornata delle vocazioni. Quest’anno salterà un altro appuntamento ormai consueto: l’ordinazione presbiterale di alcuni diaconi nella basilica di San Pietro da parte di papa Francesco. Naturalmente spiace che alcune ordinazioni previste in queste settimane non si possano celebrare. Al contempo, può essere di stimolo alla riflessione il fatto di celebrare la “Giornata delle vocazioni” senza ordinazioni.

Guardare ad altri ministeri

Da decenni ormai si insiste sulla molteplicità ed eguale dignità di tutte le vocazioni nella vita della Chiesa a servizio dell’umanità. Rimane altresì vero che, nonostante tutti i distinguo e le estensioni, il rischio è di identificare il fior fiore delle possibili vocazioni in quella che viene coronata con l’ordinazione presbiterale.

Ciò che stiamo vivendo, almeno in una buona parte delle Chiese disperse nel mondo a motivo della pandemia, forse ci aiuta a vivere questa 4ª domenica di Pasqua in modo diverso e, soprattutto, amplificato e approfondito.

Al cuore del tempo pasquale contempliamo il Cristo risorto come il bel Pastore. Egli si mostra vero pastore proprio perché «dà la propria vita per le sue pecore» (Gv 10,11). Il Cristo è il «Pastore grande delle pecore» (Eb 13,20) ed è il buon pastore animato dal desiderio che tutti abbiano la «vita in abbondanza» (Gv 10,10). Come «gregge del suo pascolo» (Sal 99,3) possiamo fargli piena fiducia: non ci fa mancare nulla che sia essenziale per il nostro cammino di discepoli e di comunità.

L’impossibilità a celebrare come d’abitudine l’eucaristia è un tempo di astinenza dolorosa. Eppure, può diventare un tempo di dilatazione provvidenziale della stessa sensibilità sacramentale. La costrizione della necessità potrebbe aiutarci a comprendere meglio come i ministeri che tengono viva la fede, la speranza e la carità dei discepoli e delle comunità sono molteplici.

Forse l’insistenza sull’eucaristia e sulla “penuria” di presbiteri per assicurarne la celebrazione, a tutti i costi e talora a detrimento della custodia dei misteri, ci ha impedito di vedere e di assicurare altri ministeri per rendere realmente presente il Cristo anche in modi diversi.

L’eucaristia è il «culmine e la fonte» non perché diventa il luogo e la forma esclusiva della presenza reale di Cristo nella Chiesa e per il mondo. L’eucaristia, quale memoriale della Pasqua del Signore, genera e rigenera continuamente molteplici forme della sua presenza di Risorto che si manifesta anche «sotto altro aspetto» (Mc 16,12). Queste presenze sono altrettanto “eucaristiche” nella misura in cui rivelano la presenza del Pastore unico che non fa mancare la sua cura, la sua guida o la sua semplice compagnia.

Il Concilio rammenta che il Cristo risorto è presente nel sacramento dell’eucaristia, ma è pure presente realmente in ogni comunità che si raduna «nel suo nome» (Mt 18,20). Come rammenta fr. Jean Jacques di En Calcat, il Cristo assicura la sua reale presenza nella «sacramentalità della Parola di Dio».

Il Risorto si fa ancora presente nell’umanità cui i discepoli sono inviati come testimoni alla fine di ogni celebrazione con il congedo. Ogni congedo eucaristico è un invio perché l’eucaristia continui a rendere realmente presente il Cristo attraverso i battezzati nella vita quotidiane e “pro-fana”. Mediante la comunione sacramentale i battezzati diventano vero Corpo di Cristo che si spezza e si dona lungo il cammino di tutti e per tutti. L’autenticità di questa incorporazione si manifesta attraverso la testimonianza della carità, sulle strade degli uomini e delle donne, soprattutto i più poveri e i più piccoli, ai crocicchi della storia vissuta e sofferta.

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Il distanziamento fisico di queste settimane ha dolorosamente toccato anche la vita sacramentale delle comunità. Come in tutte le “disgrazie” non possiamo chiudere gli occhi davanti alla grazia ricevuta. Penso alla grazia di vivere il distanziamento fisico non come distanziamento sociale e meno ancora spirituale, ma nella differenziazione arricchita e arricchente delle forme di comunione.

L’ansia pastorale e il senso di continua inadeguatezza dei ministri ordinati perché mai all’altezza di tutte le necessità e urgenze “parrocchiali”, si è trasformata in discrezione pastorale. Le comunità e i pastori sono stati ricondotti all’essenziale e ad una certa calma apostolica. Per alcuni aspetti è stato possibile rendersi conto di come tutta una serie di abitudini pastorali si potrebbero vivere in modo diverso e persino essere serenamente superate o annullate.

Rimane vero che nella persona del ministro ordinato si fa presente Cristo stesso in modo così particolare da essere unico. Nondimeno, il ministero è fecondo nella misura in cui genera e anima comunità che rendono presente la forza della grazia nella propria vita fino a renderla un lievito nella pasta del mondo in cui si è inseriti attraverso la ricchezza e la diversità dei carismi e dei ministeri.

Essere creativi

La costrizione della necessità rende creativi, com’è avvenuto nella prima comunità di Gerusalemme con la questione delle vedove e l’istituzione dei diaconi (At 6,1-7). Sembra che il Signore Gesù non avesse minimamente pensato durante il suo ministero a questo ministero. Dal gruppo dei “sette” diaconi sorge il protomartire della Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi: Stefano!

In questo tempo di pandemia, la discrezione pastorale necessaria e quasi imposta ha creato le condizioni di una dedizione pastorale assolutamente diversificata, creativa e innovativa. Qualcosa che ha fatto cambiare fortemente la percezione stessa dei ministri ordinati come pure dei religiosi e delle religiose.

Con una parola ad effetto si potrebbe dire così: si è passati in modo naturale dalla percezione di un “clero vizioso”, che ha segnato pesantemente il sentore di questi ultimi anni, a quella di un “clero virtuoso”. L’impoverimento dell’azione sacramentale da parte dei presbiteri sembra aver coinciso, almeno in parte, in una rivalutazione del senso della loro vita solidale accanto ai loro fratelli e sorelle in umanità. Provvidenziale?!

Sarebbe bello celebrare, proprio in questa quarta domenica di Pasqua, senza ordinazioni presbiterali, una “Giornata mondiale delle vocazioni” realmente plurale e aperta ai doni diversi che lo Spirito della Pentecoste distribuisce generosamente alla Chiesa per compiere la sua missione: essere l’incarnazione della compassione di Dio per l’umanità. Persino i ministri ordinati rischiano positivamente di essere percepiti non meno “sacerdoti” proprio perché più cristiani e più fratelli in umanità.

In queste settimane si sono manifestate nella Chiesa e attorno alla Chiesa sensibilità molto diverse e talora non solo contrastanti, ma persino in opposizione. Possiamo imparare a riscoprire un volto delle Chiesa che non esiste se non come il miracolo permanente di Chiese al plurale. Non solo in senso geografico e culturale, ma come sensibilità e opzioni emotive nell’espressione della fedeltà discepolare.

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Non è necessario giudicare le diverse modalità di sentire e di vivere la propria fede come parallele e quindi destinate a non incontrarsi mai. Le possiamo avvertire come concentriche ed eccentriche al contempo. In realtà, sono modi di sentire e di vivere diversi che si sfiorano come tangenti e che pure si appartengono reciprocamente.

Un solo esempio fra tutti per non rinunciare alla delicatezza verso tutti: si può essere militanti senza essere violenti, si può essere discreti senza essere irrilevanti. La liberazione delle diverse sensibilità vissuta per la necessità di questo tempo di pandemia è un incremento di intelligenza della fede da cui non vogliamo tornare indietro. La decentralizzazione cultuale e pastorale di queste settimane può essere vissuta come un’eccezione che conferma la regola. Nondimeno, può diventare un’esperienza che apre alla creatività nel rispetto di diverse sensibilità e percorsi anche nella vita di fede personale e nella testimonianza comunitaria.

Dalla lamentela sulla crisi delle parrocchie potremmo passare ad una immaginazione della parrocchia come “comunità di comunità” che hanno una loro vita autonoma e sussidiaria al contempo. Sotto la guida di persone diverse si può portare avanti l’ascolto della Parola e l’ascolto della sofferenza umana, la catechesi per i bambini vissuta tra famiglie vicine e la cura dei malati e degli anziani, il “tutorato” di quanti devono ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana o dei genitori che chiedono il battesimo per i loro figli.

In tal caso l’eucaristia può essere vissuta come apice e slancio a sigillo di tempi più lunghi in cui la Parola di Dio e la comunione nella carità assicurano una vita eucaristica diffusa.

Pratiche da ripensare

Forse è tempo di ripensare anche alla pratica di rimandare la comunione dei bambini battezzati, per ammetterli sia da subito alla piena partecipazione come nelle Chiese orientali per evitare ogni tentazione di “ricatto catechistico” in vista dei sacramenti e spendere le migliori energie nella mistagogia. Perché questo possa avvenire abbiamo bisogno prima di tutto di ciò che mons. Lobinger definisce «communitates probatae».

Dopo aver celebrato un Sinodo per l’Amazzonia, ci tocca ispirarci proprio all’esperienza di quelle comunità. Comunità “capaci”, in seno alle quali può e deve fiorire l’appello e la risposta ad assumere i vari ministeri, non ultimo quello ordinato.

Il fior fiore delle vocazioni nella Chiesa non sta appassendo, ma si sta ridimensionando per una giusta relativizzazione a favore dell’assoluto che trascende ogni mediazione, anche la più sacra come talora viene percepita quella del ministero ordinato.

Nel frattempo, tante altre vocazioni sono in fiore sul tronco secolare della stessa Chiesa. Come sempre, queste modalità inedite della vocazione di sempre a profumare il mondo di Vangelo, sbocciano sui rami più teneri dondolanti alla brezza sottile dello Spirito che soffia ora dolcemente, ora in modo impetuoso. Lo Spirito del Risorto parla ancora alla nostra Chiesa, intesa come seno accogliente di «Chiese» (Ap 2–3) sempre più piccole, ma speriamo non piccine.

In questa difficile primavera vissuta “al chiuso”, possiamo accogliere come un sussurro la parola rivolta dall’Altissimo al suo giovane profeta formato nei cortili del Tempio: «”Che cosa vedi, Geremia?”. Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”» (Ger 1,11-12).

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Lasciamo che si realizzi il sogno del nostro Pastore, bello-vero-buono. Seguiamo le «orme» (Ct 1,8) che egli ha impresso persino «sulle grandi acque» (Sal 76,20) di questa «grande tribolazione» (Ap 7,14; Mt 24,21). Non sia vana la sofferenza, ma feconda e rigeneratrice perché «non ci sfugga alcun fiore di primavera» (Sap 2,7).

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2 Commenti

  1. Gigi 9 maggio 2020
  2. Sara 4 maggio 2020

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