Le conseguenze immediate – in termini politici, economici, sociali e storici – del referendum sulla Brexit sono appena iniziate e già numerose. Quelle di medio e lungo termine restano largamente imprevedibili.
Gli ultimi giorni sono stati marcati dalle dimissioni di Cameron, dal crollo della sterlina e delle borse europee, dal declassamento del Regno Unito per mano delle agenzie di rating, dalla sfiducia al leader laburista Jeremy Corbyn da parte del suo stesso gruppo parlamentare e dal caos nel Partito conservatore. Per non parlare degli attacchi xenofobi verso gli stranieri residenti oltremanica o delle tensioni crescenti tra Inghilterra da un lato, e le più europeiste Irlanda del Nord e Scozia, dall’altro.
Il tutto, mentre Londra – priva di leadership politica e manifestamente impreparata ad affrontare una vittoria della Brexit – esita a trarre le conseguenze del referendum formalizzando a Bruxelles l’avvio della procedura di uscita. Una formalizzazione che da parte UE si chiede a gran voce, se non altro per evitare un lungo periodo di incertezza.
Si spera che una volta lanciata la procedura di uscita – ammesso, come mormora qualcuno, che questo avvenga davvero – ed elaborato il lutto, l’Europa sappia approfittare di quella che appare come la sua peggior crisi dall’inizio del processo di integrazione, per interrogarsi e per rinnovarsi.
Per interrogarsi, anzitutto. Interrogarsi su come sia possibile che l’UE – a quasi cinquant’anni dai Trattati di Roma – rimanga ancora largamente sconosciuta, incompresa, financo odiata. Di come un’organizzazione improntata alla pace, allo sviluppo economico, alla cooperazione, venga sistematicamente associata a divisioni, recessione economica, e a una burocrazia fine a se stessa.
Questo processo di auto-riflessione deve necessariamente partire da un ragionamento sulle conseguenze della globalizzazione. Non c’è bisogno di leggere Bauman disquisire di società liquida per percepire la differenza tra l’Occidente pre-globalizzazione (e pre-crisi), nel quale le possibilità – magari limitate – erano sostanzialmente offerte a tutti i gruppi sociali e il mondo di oggi, che presenta possibilità forse più ampie, ma anche fattori di rischio e incertezza ben più elevati.
La globalizzazione crea vincitori e vinti. Tra i “vincitori” (sempre provvisori e sempre a rischio declassamento, è bene ricordarlo) possiamo contare gli individui – ma anche le aziende – che hanno saputo approfittare dell’apertura dei mercati, delle opportunità del digitale, della connettività, per accrescere in competitività e, in ultima analisi, per arricchirsi. Si tratta, in generale, di fette di popolazione, se non convintamente europeiste, almeno non ostili al progetto europeo.
Per i “vincitori”, le competenze – individuali e collettive – dal punto di vista tecnico, linguistico, sociale e culturale sono assolutamente essenziali. Si tratta proprio delle competenze che mancano ai “vinti”. Spesso di classe medio-bassa. Spesso uomini. Spesso vittime della precarizzazione del mondo del lavoro, dovuta in parte proprio all’internazionalizzazione e alla digitalizzazione di cui beneficiano i “vincitori”. Spesso, obiettivi prediletti dei predicatori di populismo e xenofobia. Spesso euroscettici.
I risultati del referendum sulla Brexit – sia su base geografica che socio-demografica – confermano una tendenza già in atto altrove: i “vinti” tendono a rigettare l’Europa. Non è un caso se molti referendum su materie europee tenutisi in vari paesi negli ultimi anni (tra gli altri: quello francese del 2005 sulla Costituzione europea, quello irlandese del 2008 sul Trattato di Lisbona, quello olandese di quest’anno sull’accordo UE-Ucraina) abbiano avuto esito negativo per il fronte pro-UE, grazie anche al voto determinante delle categorie economico-sociali più deboli.
I quesiti referendari, spesso molto tecnici, sono stati semplificati e strumentalizzati – dalla politica e dai media – diventando atti di protesta: contro l’allargamento a Est dell’UE, contro l’immigrazione, contro il neo-liberalismo, contro la globalizzazione. E il fallimento di questi referendum è stato interpretato come una rivalsa dei “vinti” nei confronti di una globalizzazione che fanno fatica a capire e accettare e che, a torto o a ragione, identificano con l’Unione Europea. Una riflessione a livello UE su quella larga parte della popolazione che vive l’Europa con ostilità e timore appare pertanto assolutamente imprescindibile e urgente.
Oltre a una riflessione, l’Unione ha bisogno di un profondo rinnovamento di strutture, modalità, processi democratici, politiche e narrativa. L’esito del referendum sulla Brexit potrebbe fornire l’occasione – e dare finalmente il senso dell’urgenza – per rafforzare l’efficienza e la legittimità democratica delle istituzioni UE. Per responsabilizzare tutti gli Stati membri nel controllo delle frontiere esterne e dei flussi migratori. Per armonizzare ulteriormente le politiche economiche e fiscali, rafforzando cosi la moneta unica.
Ma soprattutto, è necessario rilanciare la crescita. L’austerità degli ultimi anni è in parte responsabile proprio dell’odio dei “vinti” verso l’Europa. Se la spesa pubblica va tenuta sotto controllo, la priorità assoluta deve essere comunque la crescita, accompagnata, dove possibile, da politiche di ridistribuzione del reddito. L’UE deve far fronte alle sue debolezze istituzionali e politiche. Ma deve anche tener conto dei suoi deboli, dei suoi “vinti”. Altrimenti questi non smetteranno di essere diffidenti nei confronti dell’Europa. E lo faranno pesare, pericolosamente, nelle urne.