Certo Agamaben con il suo intervento ha in mente l’Italia, ma l’orizzonte del suo j’accuse va ben al di là di essa: prende di mira infatti tutti gli stati che si comprendono come stati di diritto liberali e democratici.
Ma ha veramente ragione? Il grande gesto a cui mette mano cade nel vuoto perché si rifà a concettualizzazioni e assunzioni sbagliate. In nome di un «rischio che non era possibile precisare», dice Agamben, sono stati limitati i diritti delle nostre libertà – e anche molti «politici aperti» si sono accordati su questi toni.
A dire il vero stiamo vivendo una situazione in cui si può prevedere relativamente bene che succederebbe se non ci fosse un intervento dell’agire politico. «Agire in condizione di incertezza», in una situazione di pandemia, non è l’ignoranza di principio della forma di pensiero filosofico-morale, ma solo la procrastinazione temporale con la quale le conseguenze di una forma dell’agire messa in atto o meno si rendono attualmente presenti.
Certo, è drammatico non poter seppellire a dovere i nostri morti; come è drammatico dover rinunciare ad atti fondamentali della nostra libertà. E nessuno può dire in quale misura sarà possibile riappropriarsi di queste libertà. Lo stato di diritto funziona comunque anche laddove diritti che sono stati limitati ci vengono riconsegnati mediante procedure giuridiche. Ma dobbiamo davvero rinunciare volutamente a quel sapere epidemiologico che ci può proteggere da un male maggiore?
A detta di Agamben saremmo governati dagli epidemiologi – ma poi si spinge oltre, troppo: politica e amministrazione hanno avocato a sé un’autorità che un tempo il Führer aveva rivendicato per sé. In primo luogo si può ribattere che i virologi non ci governano ma consigliano. Ed è cosa buona quando il sapere viene messo a disposizione in maniera trasparente e comprensibile – inclusi quelli che sono i processi di generazione del sapere e i limiti di ciò che si può sapere.
Nel frattempo i politici (e i filosofi) si ritorcono per un mal di stomaco immaginario che sarebbe dovuto al fatto che gli scienziati sembrano cambiare parere ogni due giorni. Ma nel caso di una pandemia il margine per uno stravolgimento interpretativo degli elementi basilari di valutazione per mano della politica, per quanto esso venga ben volentieri strapazzato ogni volta che si ha a che fare con questioni di merito, è decisamente limitato.
Attualmente gli standard etici vengono limati come non era immaginabile da lungo tempo. Contro questa tendenza bisogna ricordare collettivamente, in questo momento, che nella tradizione europea rimaniamo fedeli all’eredità cristiana se consideriamo la vita come qualcosa di sacro che cerchiamo di proteggere in ogni modo – in una maniera contro-intuitiva come il distanziamento sociale, oppure con quei macchinari medici che Agamben non ama.
Naturalmente tutto questo ha il suo prezzo: l’economia ne soffre e la guarigione di una persona comporta un peso per gli altri. Ma la questione decisiva è se lo status quo ante debba essere necessariamente la misura di ogni cosa. Per quale motivo non investiamo di più per rendere sopportabile il lockdown per quelle persone che più ne soffrono – come i bambini che vivono in condizioni di disagio sociale, le piccole imprese, persone che si ritrovano da sole a crescere i propri figli –, e innescare così un minimo di benessere collettivo nelle nostre società? Non vale forse la pena di fare questo investimento per tenere in vita membri della nostra società umana, anche se dovessero presto morire per altre ragioni?
Vi è una rappresentazione fittizia della valutazione dei beni che è pericolosa. Naturalmente la protezione della vita non vale in maniera assoluta poiché in alcune condizioni storiche e temporali una cosa del genere non è possibile. Altrimenti dovremmo sospendere la società stessa, poiché in essa circolano molte convenzioni che riducono le parti di vita.
Ma qui non ne va di una grande e astratta questione, quanto piuttosto della domanda molto più concreta: facciamo tutto quello che possiamo, con tutto il dovuto sapere disponibile, per proteggere il nostro prossimo, gli anziani, i vulnerabili, esattamente perché possiamo farlo?
Agamben maledice l’«astrazione» della moderna medicina di terapia intensiva perché tratta il corpo umano come una «vita vegetativa». Senza volerlo questo richiama alla mente La peste di Camus con il suo protagonista principale: il dottor Bernard Rieux. La peste, così dice Rieux, è la «grande astrazione», il tempo di privazioni e rinunce sovraumane. Ma Rieux, alla fin fine, giunge a una visione umanista, a una più profonda solidarietà fra gli esseri umani. Agamben, di contro, cade nella trappola della sua astrazione concettuale.
La sua arringa mira a una libertà alla quale non si può sacrificare nessuna delle libertà. Laddove egli accusa già la ponderazione in merito ai diritti delle libertà di essere un atto barbaro, misconosce non solo la drammatica della situazione ma occulta anche il fatto che l’umanità, in contesti cangianti, è qualcosa che deve essere sempre di nuovo raggiunto.
«Ogni vita conta», questo dovrebbe essere il valore profondo di quell’ethos cristiano che i «barbari» in Italia e altrove seguono – davanti ai quali Agamben si schiera in maniera così dura e glaciale.
- Daniel Bogner è professore di teologia morale ed etica presso l’Università di Fribourg (Svizzera). Una versione tedesca di questo intervento è stata pubblicata dalla NZZ.
In dialogo con Giorgio Agamben, Una domanda:
- Redazione, Il sovrano e la barchetta.
- Andrea Grillo, Una domanda sbagliata.
- Francesco Sisci, L’interessante cortocircuito.
- Giovanni Zambotti, Il lato positivo.
- Davide Baraldi, Raccogliere la provocazione.
- Pietro Prio, Ragionare con Agamben.