Il dialogo tra cattolici e ortodossi si rivela più complesso del previsto. Nonostante tutto, si è passati dalla diffidenza alla fiducia reciproca.
A che punto è oggi il dialogo tra cattolici e ortodossi? Quanto resta della notte della divisione tra Chiesa d’oriente e Chiesa d’occidente?
Certo, molti sono i cristiani e le Chiese impegnati nel cammino verso l’unità voluta dal Signore, ma il dialogo tra la Chiesa di Roma e le Chiese ortodosse, reso possibile dalla cancellazione degli anatemi del 1054 alla chiusura del concilio, è quello che aveva ridestato più speranze. Speranze ravvivate dall’incontro tra il patriarca di Costantinopoli Bartholomeos e papa Francesco a Gerusalemme (25 maggio 2014) per commemorare lo storico incontro tra Athenagoras e papa Paolo VI (6 gennaio 1964), avvenuto all’insegna del perdono, «segno e preludio delle cose a venire».
A che punto è la notte?
Guardare al cammino percorso significa anche operare un discernimento sul presente, l’esercizio del riconoscimento di un kairòs in cui il Signore visita la sua Chiesa.
In questi ultimi anni siamo testimoni di eventi che se, da un lato, appaiono indicare un futuro percorribile al cammino dell’unità, dall’altro, segnalano una crisi profonda che sembra rendere vani gli sforzi compiuti.
Il 2016 aveva visto succedersi alcuni eventi significativi nei rapporti cattolici-ortodossi: l’incontro all’aeroporto José Martì dell’Avana tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill (12 febbraio 2016); la celebrazione del Grande e santo Concilio Panortodosso nel giugno 2016 a Creta, nei giorni della Pentecoste ortodossa; l’approvazione da parte della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, riunitasi in plenaria a Chieti, del documento su Sinodalità e primato durante il primo millennio: verso una comprensione comune al servizio dell’unità della Chiesa (21 settembre 2016).
La ripresa del dialogo ha conosciuto però, se non un arresto (il comitato di coordinamento della Commissione teologica mista continua a riunirsi), uno stallo dopo il conferimento dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa d’Ucraina da parte del Patriarcato di Costantinopoli.
Come conseguenza Mosca ha rotto la comunione con Costantinopoli e si è ritirata da tutti i dialoghi teologici presieduti dal patriarcato ecumenico. D’altra parte, la Chiesa ortodossa russa continua il dialogo e la collaborazione con la Chiesa cattolica. Come interpretare questi segni?
Sinodalità e primato
Occorre dare uno sguardo al contenuto del dialogo in corso. Il documento di Chieti riprende l’esame del rapporto tra sinodalità e primato che erano state al centro del precedente documento di Ravenna (Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa: Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità, 2007).
Il valore del documento di Ravenna sta nel riconoscere la dimensione sinodale in tutta la Chiesa e il suo indissolubile legame con il ministero primaziale, nei tre livelli di comunione: locale (diocesano), regionale e universale. Quello che ancora mancava era la chiarificazione dello statuto ecclesiologico di primato e sinodalità: quali sono i limiti e i modi dell’esercizio dell’autorità da parte dei “primi”?
Restava da studiare «la questione del ruolo del vescovo di Roma nella comunione di tutte le Chiese», la sua funzione in un’ecclesiologia di comunione, e soprattutto come «l’insegnamento sul primato universale dei concili Vaticano I e Vaticano II» poteva «essere compreso e vissuto alla luce della pratica ecclesiale del primo millennio» (n. 45).
A Ravenna non era presente la delegazione del Patriarcato di Mosca, in dissenso per la composizione della delegazione del patriarcato ecumenico, che includeva un vescovo della Chiesa ortodossa d’Estonia non riconosciuta da Mosca. Proprio sul tema del primato emergevano visioni diverse tra Mosca e Costantinopoli.
Nel 2013 il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa promulgava un documento su La posizione della Chiesa ortodossa russa sul problema del primato nella Chiesa universale, che rimarcava l’eterogeneità dei diversi livelli di comunione ecclesiale (locale, regionale e universale), e argomentava l’impossibilità teologica di un primato universale che non sia semplicemente «onorifico» (con una interpretazione minimalista della nozione canonica antica di primato d’onore).
Indirettamente, il documento di Mosca escludeva ogni forma di primato sull’insieme dell’ortodossia. Al documento rispondeva una nota dell’allora metropolita Elpidophoros di Bursa (oggi metropolita d’America), Primus sine paribus. Una risposta al testo sul primato del Patriarcato di Mosca, in cui si enfatizzava il ruolo primaziale dell’arcivescovo di Costantinopoli all’interno della comunione ortodossa.
Queste diverse visioni teologiche in seno all’ortodossia non impedirono l’approvazione del documento di Chieti che, presente anche la delegazione russa, riprendeva l’articolazione tra primato e sinodalità affermata a Ravenna.
Il documento fa discendere la nozione della comunione ecclesiale dalla comunione intratrinitaria (n. 1) ma, al tempo stesso, assume l’idea fondamentale dell’ecclesiologia eucaristica, secondo cui «sin dai primi tempi la Chiesa esisteva come altrettante Chiese locali» in comunione tra loro (n. 2). La sinodalità è una «qualità fondamentale della Chiesa nel suo insieme» (n. 3). Sul primato, il documento menziona il ruolo del vescovo di Roma come istanza di appello, attribuitogli dal concilio di Sardica (343) e recepito dai canoni ortodossi. «Gli appelli dell’Oriente al vescovo di Roma esprimevano la comunione della Chiesa, ma il vescovo di Roma non esercitava alcuna autorità canonica sulle Chiese d’Oriente» (n. 19). Si tratta di un passo importante verso un «approccio procedurale all’esercizio del primato» (Hervé Legrand), che potrebbe ispirare modi nuovi e, al tempo stesso, radicati nella tradizione su «come il primato, la sinodalità e la loro interrelazione possono essere concepiti ed esercitati oggi e in futuro» (n. 21).
Questa decisa assunzione della dimensione sinodale della Chiesa e, al contempo, la comprensione della necessità di un ministero primaziale al servizio della comunione delle Chiese, possono costituire un tempo opportuno per le Chiese cattolica e ortodossa nella loro ricerca dell’unità. Basti pensare al cammino intrapreso con decisione da papa Francesco, che cerca di imprimere alla Chiesa cattolica un volto sinodale, mantenendo integro il carisma petrino di garante dell’obbedienza e della conformità della Chiesa al vangelo Gesù Cristo.
Le Chiese ortodosse e l’ecumenismo
La conclusione del documento di Chieti ricorda che, nel primo millennio, «anche se l’unità tra Oriente e Occidente era a volte travagliata, i vescovi di Oriente e Occidente erano consapevoli di appartenere all’unica Chiesa» (n. 20).
In che misura le due Chiese impegnate oggi nel dialogo teologico riconoscono reciprocamente la qualità ecclesiale l’una dell’altra? Se, per la Chiesa cattolica, il fondamento teologico ed ecclesiologico del dialogo è costituito dal concilio Vaticano II, per l’ortodossia mancava fino al concilio di Creta un pronunciamento conciliare sull’impegno ecumenico.
Su questo punto il concilio di Creta, prima e dopo la sua celebrazione, è stato oggetto di aspre contestazione da parte dei fondamentalisti. Il testo conciliare afferma che «la Chiesa Ortodossa ammette la denominazione storica di altre Chiese e Confessioni Cristiane non-ortodosse, che non si trovano in comunione con lei, ma crede che le relazioni con queste dovrebbero basarsi sulla chiarificazione, più rapida e oggettiva possibile, dell’intera questione ecclesiologica» (n. 6). La bozza del documento parlava di «esistenza storica delle Chiese non ortodosse», ma la Chiesa di Grecia non lo ha accettato, ritenendo che il termine “Chiesa” fosse applicabile alla sola Chiesa ortodossa.
Il patriarca ecumenico Bartholomeos e il metropolita Ioannis (Zizioulas) di Pergamo insistettero energicamente perché fosse mantenuto il termine “Chiese” nel documento, e la formulazione un po’ contorta del testo finale è frutto di un compromesso.
La «chiarificazione ecclesiologica» è precisamente il compito del dialogo ecumenico. Nonostante esitazioni e incertezze, il concilio di Creta afferma per la prima volta, a livello panortodosso, la legittimità e l’importanza dell’impegno ecumenico. Un impegno ribadito dal documento sulla dottrina sociale pubblicato lo scorso 27 marzo dal patriarcato ecumenico, Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa Ortodossa (§ 54).
Com’è noto, al concilio di Creta non tutte le quattordici Chiese ortodosse autocefale erano presenti (per motivi diversi rinunciarono a parteciparvi il patriarcato di Antiochia, il patriarcato di Mosca, la Chiesa ortodossa georgiana e la Chiesa ortodossa bulgara). Tra i temi cancellati dall’agenda del concilio poiché non raccoglievano il necessario consenso c’era quello dell’autocefalia di una Chiesa e del modo di concederla. Il problema sarebbe esploso con virulenza nel caso dell’Ucraina.
Le divisioni nell’ortodossia
Costantinopoli ha motivato il suo intervento nella situazione ucraina con la volontà di sanare lo scisma che si era creato nella Chiesa ucraina alla caduta del comunismo.
Il patriarcato ecumenico, rivendicando la giurisdizione sulla metropolia di Kiev (che fino al 1686 dipendeva canonicamente da Costantinopoli), ha prima ammesso gli scismatici nella comunione ortodossa e poi conferito il tomos dell’autocefalia alla nuova Chiesa ortodossa d’Ucraina (5 gennaio 2019).
L’autocefalia della Chiesa ucraina era stata fortemente voluta e promossa dall’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, che la sfruttò per fini elettorali. Dopo le elezioni presidenziali in Ucraina nel 2019 e la sconfitta di Poroshenko, si è attenuata la pressione politica sulla Chiesa ortodossa ucraina (Patriarcato di Mosca), che rimane la Chiesa maggioritaria nel paese.
Il conferimento dell’autocefalia a una Chiesa in una parte del proprio territorio canonico ha portato il Patriarcato di Mosca a interrompere la comunione eucaristica con Costantinopoli e, successivamente, con le altre Chiese ortodosse che hanno riconosciuto la nuova Chiesa (la Chiesa ortodossa greca e il Patriarcato di Alessandria, rispettivamente il 12 ottobre 2019 e l’8 novembre 2019).
Lo scorso febbraio, per un’iniziativa del patriarca Teofilo III di Gerusalemme non concordata con Costantinopoli, si è tenuto ad Amman un incontro per la riconciliazione e per «preservare l’unità dell’ortodossia», che però non sembra aver dato i frutti desiderati (solo sei Chiese hanno risposto all’invito, e solo quattro erano presenti con il loro primate).
La Chiesa cattolica, bisogna riconoscerlo, non ha compiuto il minimo gesto che possa sembrare un’intromissione nelle questioni interne dell’Ortodossia, né alimentato un desiderio o tanto meno una pretesa di arbitrato tra le Chiese ortodosse che vivono divisioni. È una questione di lealtà, cui papa Francesco mi sembra particolarmente attento: solo nella sinfonia tra tutte le Chiese ortodosse è possibile un autentico dialogo con Roma.
La sofferenza della divisione tra le Chiese ortodosse è anche la sofferenza della Chiesa cattolica. Il percorso del dialogo si rivela molto più complesso di quello che sembrava all’indomani del Vaticano II, ma è sempre un passaggio dalla diffidenza alla fiducia reciproca, purificando e guarendo le memorie, fino a delineare insieme il cammino che ci attende misurandolo sul cammino verso il Regno, meta verso la quale tutte le Chiese sono in pellegrinaggio.