La maggioranza del popolo argentino, soprattutto i più umili, ha una grande affetto nei confronti di papa Francesco. Si calcola che goda la stima del 75% con picchi del 90% nei “ barrios” popolari. Di gran lunga superiore a qualsiasi altra figura pubblica. Solo il 6% pensa in maniera opposta. In questi mesi in Argentina si sono moltiplicate critiche nei suoi confronti, astiose, irriverenti, offensive, provenienti soprattutto dal settore politico e da alcuni esponenti dei mass media, che pretendono di oscurarne l’immagine.
Per ricostruire le polemiche argentine su papa Francesco è utile rifarsi all’intervista che il pontefice ha rilasciato a La Nación (3 luglio) e che l’Osservatore romano ha ripreso il 5 luglio. I nuclei dell’improvvida contestazione al pontefice sono sostanzialmente tre. Il primo riguardo la polemica direttamente politica: l’accusa è di “remare contro” l’attuale presidente della Repubblica, Macri. Se ne fanno portavoce alcuni politici e ministri come Marcos Pena, incapaci di collocare chiunque se non sulla linea contrapposta kirchenerismo (i due precedenti presidenti della Repubblica) e antikircherismo (gli attuali esponenti). L’incontro con E. Bonafini, una delle leader delle madri degli scomparsi durante la dittatura militare, e i rapporti con G. Vera, impropriamente considerato dal governo come portavoce argentino del papa – ambedue molto critici col governo – sarebbero la prova. Ulteriormente confermata dal suggerimento dato a un’importante fondazione di aiuto alle scuole cattoliche, Scholas, di non attingere a finanziamenti governativi (dirottabili su emergenze sociali) e al sostegno offerto a un piccolo gruppo di giudici, occasionalmente incontrati a Roma. Il secondo nucleo si riferisce al ceto anticlericale che trova la sua espressione in Jaime Duran Barba e nel giornalista J. Lanata. Il terzo nucleo è quello dei tradizionalisti cattolici che non sopportano l’immagine di una Chiesa aperta e comprensiva come quella di Francesco. Polemiche solo locali? In parte sì, in parte no. Basta rileggere la lettera del papa alla Commissione per l’America Latina (19 marzo 2016) nella quale Francesco denuncia il clericalismo cui è condannato (e in parte auto-condannato) il laicato latino-americano, che scompare nella morsa delle relazioni dirette delle gerarchie con ristrette elite e nella tutela clericale diffusa. Più in generale vi è l’irritazione del papa ogni volta che qualche politico pretenda di tirarlo dalla propria parte o voglia indicarlo come nemico.
Ne parliamo con il vescovo di Neuquén, mons. Virginio Bressanelli, già vice presidente dell’episcopato argentino ai tempi della presidenza Bergoglio, membro della Commissione permanente dell’episcopato argentino in rappresentanza della Regione pastorale Patagonia- Comahue e membro della Commissione episcopale per la vita consacrata.
«Questi settori rimproverano a papa Francesco di interferire nella politica nazionale, favorendo una parte a scapito dell’altra. In concreto, gli si rimprovera di simpatizzare per il kirchnerismo e adottare un atteggiamento freddo se non addirittura ostile nei confronti del governo di Macri, l’attuale presidente della Repubblica. Prolifera il “si dice”, non si va mai alla fonte, non si tiene conto dei suoi discorsi, delle omelie, dei documenti pontifici. Si fanno letture piene di emotività, di passione, a volte di interessi propri. Si pretende di incasellare il suo pensiero. Il fatto più grave è che si associa il papa a persone molto discusse dal punto di vista morale, per atteggiamenti poco democratici o per forti sospetti di corruzione, cercando di sminuire la credibilità della sua parola e della testimonianza di vita, togliendo efficacia al suo ministero e creando pregiudizi nei confronti della Chiesa locale e universale».
Una cosa è certa e forse scomoda per alcuni settori dello stesso episcopato argentino: papa Francesco intende coinvolgere i vescovi in una maggiore partecipazione e aprire dibattiti interni, sviluppare la libertà di espressione, la fraternità, la coesione e senso di corpo.
«Proprio così. Papa Francesco intende aiutare i vescovi a non immischiarsi in lotte meschine e dissolventi, che allontanano la Chiesa dal popolo e dall’atteggiamento di servizio, chiudendola in se stessa. Ricorda loro che la Chiesa ci guadagna a non legarsi al potere, a non cercare privilegi, a rispettare l’autonomia reciproca nei confronti del governo, a mantenere una lettura pastorale e critica della realtà, a collaborare per il bene comune, a non fermarsi alla semplice denuncia, ma ad essere voce propositiva, a percorrere la strada del dialogo e dell’incontro, a superare gli scontri sterili e poco rispettosi delle diversità, a infondere un’attiva speranza cristiana e annunciare il vangelo anche quando oggi propone valori contro culturali».
Ci sta riuscendo in questo suo programma?
«L’episcopato argentino sta cambiando il suo modello di presenza, di stile e di servizio. Ovviamente la strada è ancora lunga perché nella nostra nazione ci sono ferite storiche molto profonde, difficili da sanare. Quello che avviene nel campo politico è solo la punta dell’iceberg. Non v’è dubbio, d’altra parte, che il popolo argentino non abbia risorse umane, intellettuali e spirituali in grado di dare una svolta alla situazione. Abbiamo molta strada da fare, però comunque il traguardo è molto più vicino adesso di prima. La partecipazione è più sentita, il dibattito più aperto, si vanno chiarendo molte situazioni oscure. Si sta vivendo un pluralismo politico che obbliga al dibattito, al consenso in ordine al bene comune. Si avverte la consapevolezza che siamo tutti sottoposti alla legge. Vi è un chiaro rifiuto di qualsiasi forma di corruzione. Si vede l’urgenza di rispettare e far valere l’indipendenza dei poteri istituzionali sotto una medesima Costituzione e bandiera. Le tensioni nel paese, oltre ai grandi problemi della povertà – oggi in crescita –, la mancanza di lavoro che rispetti i diritti della persona, le difficoltà di accesso alla casa, l’espulsione dei contadini e di popoli indigeni, la mancanza di un’adeguata cura del creato, le droghe molto diffuse e il narcotraffico saldamente impiantato, la tratta di persone, lo sfaldarsi delle famiglie, la caduta dei valori tradizionali, che comporta la perdita degli assi portanti del nostro substrato storico, culturale, sociale e religioso, credo che siano e continuino ad essere la preoccupazione di papa Francesco».
Ha l’impressione che la dirigenza argentina se ne sia resa conto?
«Ho l’impressione di no. Anzi, penso che stia succedendo la stessa cosa di quando era arcivescovo di Buenos Aires: non fu del tutto capito. Molte delle sue prediche e più ancora i suoi gesti furono scoperti o capiti una volta divenuto papa di tutta la cattolicità e vescovo di Roma. Però è stato sempre capito dai poveri, dagli umili, da coloro che soffrono, dagli esponenti di altre confessioni religiose, dai movimenti popolari e da molte organizzazioni sociali e caritative che lavorano senza fare rumore. Sono convinto che in Argentina si voglia bene a papa Francesco, però non si sono ancora capiti né la sua pedagogia né il suo stile in ordine alla conversione della Chiesa. Papa Francesco offre a tutta l’umanità un nuovo paradigma di governare e un nuovo modello di leadership».
A suo parere, quali sono le chiavi di lettura per capire a fondo papa Francesco?
«Primo: non certamente la chiave politica, ma la chiave pastorale. Gli errori vengono quando i suoi gesti vengono letti in chiave politica ed è quello che avviene in Argentina. Non che papa Francesco non sia un “politico”. È che la sua visione politica è ampia, non partitica, radicata nel cuore del vangelo, compendiata nella dottrina sociale della Chiesa. I punti base del suo pensiero e comportamento sono: l’inclusione e il protagonismo reale dei poveri nella società; la tratta delle persone; il rispetto e la promozione della dignità delle persone; il traguardo che ogni persona abbia una terra (luogo), un tetto e lavoro (tierra, techo, trabajo); la cura della “casa comune” e l’ecologia integrale e umana; la cultura del dialogo e dell’incontro; il rispetto delle istituzioni democratiche e l’indipendenza dei poteri dello Stato; la verità, la giustizia e la misericordia per tutti».
Tutto questo, come viene percepito in Argentina?
«Gli argentini hanno due “passioni”: il calcio e la politica. Abbiamo perso la Coppa America. Ha vinto il Cile. Ho visto adulti piangere come bambini! La passione per la politica: significa che da noi tutti votano non per obbligo, ma perché sono convinti che sia un dovere. Ci si sente responsabili della scelta del governo. Ci lasciamo prendere dalle discussioni come se fossimo tutti esperti. La passione è in sé buona, ma non dobbiamo esagerare. Torniamo a papa Francesco. È stato il principale redattore del Documento di Aparecida uscito dalla V Conferenza generale dell’episcopato latino americano e dei Caraibi. Papa Francesco ha uno sguardo pastorale, legge la realtà del continente con gli occhi di un pastore. La sua chiave di lettura è la fede, supportata dalla rigorosità professionale».
Indubbiamente il linguaggio di papa Francesco è qualcosa di nuovo.
«Certamente: è il linguaggio della misericordia, che non è facile da capire da parte di chi non si muove nell’ambito della fede. È un linguaggio di gesti, silenzi, atteggiamenti, parole nuove, stile di vita e scelte personali. Si è proposto di richiamare la Chiesa a una conversione personale, sociale, strutturale e pastorale. Vi sono, tuttavia, dei segni in Francesco che a prima vista sono incomprensibili, ma che pongono interrogativi significativi. Ci vorrà del tempo per capirli fino in fondo. Ha un suo carisma personale: la sua lettura della realtà anticipa i tempi. Ha un’intuizione lucidadell’opportunità del kairos, che sa discernere con saggezza. Sa guardare lontano e non è ossessionato dalla sua immagine, anche quando sa che la stanno usando. Per questo è il meno “populista” degli argentini e il più “popolare” nel mondo.
Ha il carisma di sapere guardare le persone. Presta attenzione ad ogni persona. La guarda in faccia, la fissa negli occhi. È attento ai dettagli, alle situazioni e alle persone, cui gli altri non prestano attenzione. Non ha paure, non ama camminare solo. Ha la speranza teologale che include la fede e l’amore. Ha pazienza, sa aspettare. Ha chiara la meta, sa come raggiungerla e coinvolge tutti. È coerente; esige prima per se stesso la conversione. È misericordioso perché ha un’esperienza intima di Dio. Si sente misericordioso per investitura da parte di Dio».
Ritorniamo alle critiche nei confronti di Francesco, che tengono banco nei mass media e in certi settori della politica e dell’impresa. Ci si domanda perché non abbia ancora visitato l’Argentina.
«Sono critiche spesso ideologiche, perché chi getta legna nel fuoco ha ben altri interessi, ha altri scopi. Direi di non drammatizzare i fatti di questi mesi. In un mondo pluralista, tutti coloro che sono sinceri e limpidi nelle loro posizioni si accorgeranno che papa Francesco è un bene per il Paese. Certamente noi argentini dobbiamo imparare a convivere nella diversità di pensieri e di stili di vita. Dobbiamo però rafforzare la nostra fede e il nostro amore per la Chiesa. Giovanni Paolo II è stato un apostolo missionario; Benedetto XVI un maestro nella fede; Francesco è un pastore con l’odore delle pecore. È consapevole di avere sulle spalle il peso di un grande ministero. Lo porta con coraggio e allegria. Senza minimizzare le critiche, che provengono da settori molto minoritari, in Argentina come nel resto del mondo. La figura di Francesco è un segno di speranza. Promuove novità e cambiamenti nella società, nelle relazioni umane e nel servizio dell’autorità. Si profila in lui una leadership del tutto nuova. Non vorrei esagerare, ma vedo la leadership di Francesco plasmata dal Vangelo. Francesco, uomo di preghiera ed esperto nel discernimento, mette in atto una leadership che si ispira a Gesù e come Gesù non chiude la porta a nessuno».