Convertirsi in carcere

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Prescindendo totalmente dal caso di Silvia Romano, del quale non ho alcuna conoscenza diretta, provo a descrivere le dinamiche di conversione di persone private della libertà, così come le osservo da anni in un grande carcere italiano.

La prima cosa che balza all’occhio è l’importanza della dimensione religiosa/spirituale in detenzione. Il punto non è stabilire se Dio esista o non esista, cosa indimostrabile nei due sensi, ma semplicemente riconoscere l’alta rilevanza del Trascendente per chi si trova in catene, che opera come leva di senso e come strumento di resilienza contro la tentazione quotidiana di uccidersi o di scivolare nella follia. È l’apertura di uno spazio interiore non soggetto a controlli, nel luogo dove tutto è sotto controllo.

La conversione in detenzione ha due possibili direzioni: all’interno del proprio contesto religioso originario; nel passaggio da questo contesto originario ad un altro contesto. In entrambi casi si può parlare di una “scoperta”, quindi di un movimento “rivoluzionario” e “creativo” rispetto alla staticità asfissiante della condizione detentiva.

Interiorità

Questa scoperta opera su tre livelli: interiorità, ritualità, socialità.

Il primo livello è riscontrabile particolarmente tra le detenute, vere cacciatrici di “luci invisibili” nella tenebra della cella.

Le donne, più che gli uomini, mostrano una grande libertà nell’accostarsi a tutto ciò che intuiscono essere buono in quell’attimo: una detenuta chiede di parlarmi come monaco cattolico, ma sapendo che mi occupo di islam mi prega infine di procurarle una copia del Corano. Quando poi le faccio cenno alla dottrina taoista del “non-agire” e del vivere con “la semplicità del cielo e della terra”, compila la domanda scritta per avere in cella anche il Tao te Ching.

Un’altra detenuta partecipa assiduamente alle messe e agli incontri sul Vangelo: è una musulmana convinta, ma la sua anima si dilata nel sentire parlare di Dio lì, e ci va senza remore. È superficiale sincretismo? Solo un atteggiamento miope potrebbe liquidare frettolosamente queste “esplorazioni”.

Rito

C’è poi il livello rituale, cioè la ripetizione quotidiana di gesti che immettono in un “ordine sacro”, quindi pulito e incorrotto rispetto al disordine impuro della vita in catene. In ciò il culto islamico ha indubbiamente una forza attrattiva, per la sua insistenza sul valore della gestualità. Ciò vale particolarmente, mi pare, per i detenuti maschi.

Entra in carcere un sapiente musulmano, che chiamo da lontano per una conferenza sul valore spirituale della preghiera. Ci sono domande? Shaykh, la mano destra va sulla sinistra? Nel takbir il pollice deve toccare l’orecchio oppure no? A che distanza le gambe? Dove metto i piedi quando mi siedo dopo la prostrazione?

All’inizio queste domande mi stupivano e m’imbarazzavano, pensando all’ospite che aveva parlato di tutt’altro, poi ho capito che la preghiera non è nel corpo, ma è corpo, quello incatenato. I gesti del rito operano ritualmente la rottura delle catene.

Per altro verso, la percezione del culto come unico luogo di santità incontaminata può facilmente innescare processi di radicalizzazione religiosa: il mondo che non prega come io prego è radicalmente impuro.

Socialità

Infine, il livello della socialità. La conversione in detenzione consente di entrare in nuove reti di relazione, non solo con il Trascendente (la spinta mistica) e con il proprio corpo (l’esecuzione del rito), ma orizzontalmente con le persone con cui vivo.

Se uno degli effetti della detenzione è proprio quello della frammentazione delle relazioni e la discesa nell’abisso della solitudine, anticamera della follia e del suicidio, la conversione debella la solitudine, genera a una nuova socialità solidale, quella del vincolo di fede. È un ritorno alla vita, anche se non possono sfuggire le ambiguità: la comune fede libera ma vincola. È a questo livello che agiscono in modo più forte le pressioni esterne alla conversione.

Ne ho fatta esperienza diretta, pur frequentando il carcere da libero. In nessun altro luogo ho subìto tante pressioni a convertirmi, da parte di detenuti musulmani, uomini e donne. Lo interpreto come un altro aspetto del recupero del gesto rituale: dare ordine al caos impuro della detenzione eliminando gesti rituali disomogenei.

Tra l’altro, alla predicazione vedevo alternarsi gesti di gentilezza commoventi, sicuramente sinceri (persone che non hanno nulla in cella e ti portano il tè alla menta e il cioccolatino) ma nondimeno parte di una precisa strategia missionaria, che nei trattati di shari’a ha un nome tecnico: “mu’allafat al-qulub”, cioè ammansire i cuori (dei miscredenti).

La verifica della vita

Che valore dare alle conversioni in detenzione? Come comportarsi con i convertiti in catene?

Sono partito dicendo che bisogna prendere molto sul serio queste vicende, senza facili scorciatoie. Ho cercato di mostrare, in grande sintesi, la delicatezza delle dinamiche di conversione, che richiedono grande rispetto per la libertà delle singole anime, ma al tempo stesso molta prudenza, proprio perché si è di fronte a espressioni della libertà di coscienza… in assenza di libertà.

Ciò esige anche grande riservatezza. In questo senso, ad esempio, non andrei mai in giro a sbandierare la strepitosa conversione al cristianesimo di qualche detenuto musulmano. E sì che ne avrei da raccontare, con corredo di lettere e diari autografi. Perché non lo faccio? Perché ritengo che queste conversioni in detenzione siano condizionate a una conferma che può venire solo una volta recuperata la libertà.

Non nego la verità soggettiva di queste conversioni, nel momento in cui si sono prodotte, ma sono assolutamente persuaso del fatto che solo un lungo periodo di “decantazione” in libertà possa consentire alle persone interessate di confermare o meno quanto hanno deciso.

È il motivo per cui consiglio anche di non compiere mai in catene “passi formali”, dal punto di vista religioso, come la pronuncia del credo islamico di fronte a testimoni o la celebrazione del battesimo cristiano.

Aspetta – dico a tutti –, per ora coltiva queste cose nel tuo cuore, leggi, informati, rifletti, e quando sarai libero deciderai cosa fare. Sappiamo che la libertà di religione è la pietra di fondazione dello stato moderno: essa deve essere dunque garantita a tutti nei confronti di ogni potere esterno, ma dev’essere garantita anche al singolo, non solo nei confronti di chi gli sta intorno, ma anche nel rapporto con se stesso e con quella storia individuale segreta del cuore che solo lui conosce.

PS: per chi volesse approfondire il tema, può scaricare qui il report del progetto sperimentale (Religioni per la cittadinanza) realizzato insieme ad altre persone nella casa circondariale di Bologna, nel 2019.

conversione in detenzione

Ignazio De Francesco è monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata e islamologo, delegato diocesano (BO) per il dialogo interreligioso. Come volontario carcerario si occupa in particolare dei detenuti di fede islamica. Tra i progetti culturali realizzati per il carcere di Bologna: Diritti Doveri Solidarietà,  documentato da Dustur (di Marco Santarelli); Religioni per la cittadinanza, documentato da Nel bene e nel male (di Lorenzo Stanzani) in lavorazione. Tra i suoi libri Leila della tempesta, scritto a partire dai dialoghi in carcere, e con l’adattamento teatrale di Alessandro Berti.

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2 Commenti

  1. Gabriella Rustici 21 maggio 2020
    • Ignazio De Francesco 21 maggio 2020

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