Alle Pontificie Opere Missionarie

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Cari fratelli e sorelle!

Quest’anno avevo deciso di partecipare alla vostra Assemblea generale annuale, giovedì 21 maggio, festa dell’Ascensione del Signore. Poi l’Assemblea è stata annullata a causa della pandemia che ci coinvolge tutti. E allora vorrei inviare a tutti voi questo messaggio, per farvi giungere comunque le cose che avevo in cuore di dirvi. Questa festa cristiana, nei tempi inimmaginabili che stiamo vivendo, mi appare ancora più feconda di suggestioni per il cammino e la missione di ognuno di noi e di tutta la Chiesa.

Celebriamo l’Ascensione come una festa, eppure essa commemora il congedo di Gesù dai suoi discepoli e da questo mondo. Il Signore ascende in Cielo, e la liturgia orientale racconta lo stupore degli angeli nel vedere un uomo che con la sua carne sale alla destra del Padre. Eppure, mentre Cristo è sul punto di ascendere al cielo, i discepoli – che pure lo hanno visto risorto – non sembrano ancora aver capito bene che cosa è accaduto. Lui sta per dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle proprie congetture. Gli chiedono se sta per restaurare il regno d’Israele (cfr At 1,6).

Ma quando Cristo li lascia, invece di essere tristi, tornano a Gerusalemme «pieni di gioia», come scrive Luca (cfr 24,52). Sarebbe una stranezza, se non fosse accaduto qualcosa. E infatti Gesù ha già promesso loro la forza dello Spirito Santo, che scenderà su di essi a Pentecoste. Questo è il miracolo che cambia le cose. E loro diventano più sicuri, quando affidano tutto al Signore. Sono pieni di gioia. E la gioia in loro è la pienezza della consolazione, la pienezza della presenza del Signore.

Paolo scrive ai Galati che la pienezza di gioia degli Apostoli non è l’effetto di emozioni che soddisfano e rendono allegri. È una gioia traboccante che si può sperimentare solo come frutto e dono dello Spirito Santo (cfr 5,22). Ricevere la gioia dello Spirito è una grazia. Ed è l’unica forza che possiamo avere per predicare il Vangelo, per confessare la fede nel Signore. La fede è testimoniare la gioia che ci dona il Signore. Una gioia così, uno non se la può dare da solo.

Gesù, prima di andar via, ha detto ai suoi che avrebbe mandato loro lo Spirito, il Consolatore. E così ha consegnato allo Spirito anche l’opera apostolica della Chiesa, per tutta la storia, fino al suo ritorno. Il mistero dell’Ascensione, insieme all’effusione dello Spirito nella Pentecoste, imprime e trasmette per sempre alla missione della Chiesa il suo tratto genetico più intimo: quello di essere opera dello Spirito Santo e non conseguenza delle nostre riflessioni e intenzioni. È questo il tratto che può rendere feconda la missione e preservarla da ogni presunta autosufficienza, dalla tentazione di prendere in ostaggio la carne di Cristo – asceso al Cielo – per i propri progetti clericali di potere.

Quando nella missione della Chiesa non si coglie e riconosce l’opera attuale ed efficace dello Spirito Santo, vuol dire che perfino le parole della missione – anche le più esatte, anche le più pensate – sono diventate come “discorsi di umana sapienza”, usati per dar gloria a sé stessi o rimuovere e mascherare i propri deserti interiori.

La gioia del Vangelo

La salvezza è l’incontro con Gesù, che ci vuole bene e ci perdona, inviandoci lo Spirito che ci consola e ci difende. La salvezza non è la conseguenza delle nostre iniziative missionarie, e nemmeno dei nostri discorsi sull’incarnazione del Verbo. La salvezza per ognuno può accadere solo attraverso lo sguardo dell’incontro con Lui, che ci chiama. Per questo il mistero della predilezione inizia e non può iniziare che in uno slancio di gioia, di gratitudine. La gioia del Vangelo, la “gioia grande” delle povere donne che la mattina di Pasqua erano andate al Sepolcro di Cristo e lo avevano trovato vuoto, e che poi per prime incontrarono Gesù risorto e corsero a dirlo agli altri (cfr Mt 28,8-10). Solo così questo essere scelti e prediletti può testimoniare davanti a tutto il mondo, con le nostre vite, la gloria di Cristo risorto.

I testimoni, in ogni situazione umana, sono coloro che attestano ciò che viene compiuto da qualcun altro. In questo senso, e solo in questo senso noi possiamo essere testimoni di Cristo e del suo Spirito. Dopo l’Ascensione, come racconta il finale del Vangelo di Marco, gli apostoli e i discepoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che l’accompagnavano» (16,20). Cristo, con il suo Spirito, testimonia sé stesso mediante le opere che compie in noi e con noi. La Chiesa – spiegava già Sant’Agostino – non pregherebbe il Signore per chiedere che la fede sia donata a quelli che non conoscono Cristo, se non credesse che è Dio stesso a rivolgere e attirare verso di sé la volontà degli uomini.

La Chiesa non farebbe pregare i suoi figli per chiedere al Signore di perseverare nella fede in Cristo, se non credesse che è proprio il Signore ad avere in mano i nostri cuori. Infatti, se la Chiesa chiedesse a Lui queste cose, ma pensasse di potersele dare da sé stessa, vorrebbe dire che tutte le sue preghiere non sono autentiche, ma sono formule vuote, dei “modi di dire”, dei convenevoli imposti dal conformismo ecclesiastico (cfr Il dono della perseveranza. A Prospero e Ilario, 23, 63).

Se non si riconosce che la fede è un dono di Dio, anche le preghiere che la Chiesa rivolge a Lui non hanno senso. E non si esprime attraverso di esse nessuna sincera passione per la felicità e la salvezza degli altri, e di quelli che non riconoscono Cristo risorto, anche se si passa il tempo a organizzare la conversione del mondo al cristianesimo.

È lo Spirito Santo ad accendere e custodire la fede nei cuori, e riconoscere questo fatto cambia tutto. Infatti, è lo Spirito che accende e anima la missione, le imprime dei connotati “genetici”, accenti e movenze singolari che rendono l’annuncio del Vangelo e la confessione delle fede cristiana un’altra cosa rispetto ad ogni proselitismo politico o culturale, psicologico o religioso.

Ho richiamato molti di questi tratti distintivi della missione nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Ne riprendo alcuni.

Attrattiva. Il mistero della Redenzione è entrato e continua a operare nel mondo attraverso un’attrattiva, che può avvincere il cuore degli uomini e delle donne perché è e appare più attraente delle seduzioni che fanno presa sull’egoismo, conseguenza del peccato. «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato», dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (6,44). La Chiesa ha sempre ripetuto che per questo si segue Gesù e si annuncia il suo Vangelo: per la forza dell’attrazione operata da Cristo stesso e dal suo Spirito.

La Chiesa – ha affermato Papa Benedetto XVI – cresce nel mondo per attrazione e non per proselitismo (cf. Omelia nella Messa di apertura della V Conferenza Gen. dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007: AAS 99 [2007], 437). Sant’Agostino diceva che Cristo si rivela a noi attirandoci. E, per dare un’immagine di questa attrattiva, citava il poeta Virgilio, secondo il quale ciascuno è attratto da ciò che gli piace. Gesù non solo convince la nostra volontà, ma attira il nostro piacere (Commento al Vangelo di Giovanni, 26, 4). Se si segue Gesù felici di essere attratti da lui, gli altri se ne accorgono. E possono stupirsene. La gioia che traspare in coloro che sono attirati da Cristo e dal suo Spirito è ciò che può rendere feconda ogni iniziativa missionaria.

Gratitudine e gratuità. La gioia di annunciare il Vangelo brilla sempre sullo sfondo di una memoria grata. Gli Apostoli non hanno mai dimenticato il momento in cui Gesù toccò loro il cuore: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39).La vicenda della Chiesa risplende quando in essa si manifesta la gratitudine per la gratuita iniziativa di Dio, perché «è lui che ha amato noi» per primo (1 Gv 4,10), perchè «è Dio solo che fa crescere» (1 Cor 3,7). La predilezione amorosa del Signore ci sorprende, e lo stupore, per sua natura, non può essere posseduto né imposto da noi. Non ci si può “stupire per forza”. Solo così può fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito di sé. Anche il fervore missionario non si può mai ottenere in conseguenza di un ragionamento o di un calcolo. Il mettersi “in stato di missione” è un riflesso della gratitudine.

È la risposta di chi dalla gratitudine viene reso docile allo Spirito, e quindi è libero. Senza percepire la predilezione del Signore, che rende grati, perfino la conoscenza della verità e la stessa conoscenza di Dio, ostentati come un possesso da raggiungere con le proprie forze, diventerebbero di fatto “lettera che uccide” (cfr 2 Cor 3,6), come hanno mostrato per primi San Paolo e Sant’Agostino. Solo nella libertà della gratitudine si conosce veramente il Signore.Mentre non serve a niente e soprattutto non è appropriato insistere nel presentare la missione e l’annuncio del Vangelo come se fossero un dovere vincolante, una specie di “obbligo contrattuale” dei battezzati.

Umiltà. Se la verità e la fede, se la felicità e la salvezza non sono un nostro possesso, un traguardo raggiunto per meriti nostri, il Vangelo di Cristo può essere annunciato solo con umiltà. Mai si può pensare di servire la missione della Chiesa esercitando arroganza come singoli e attraverso gli apparati, con la superbia di chi snatura anche il dono dei sacramenti e le parole più autentiche della fede cristiana come un bottino che ci si è meritato. Si può essere umili non per buona educazione, non per voler apparire accattivanti.

Si è umili se si segue Cristo, che ai suoi ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Sant’Agostino si chiede come mai, dopo la Risurrezione, Gesù si è fatto vedere solo dai suoi discepoli e non invece da chi lo aveva crocifisso; e risponde che Gesù non voleva dare l’impressione di «sfidare in qualche modo i suoi uccisori. Per lui era infatti più importante insegnare l’umiltà agli amici, piuttosto che rinfacciare la verità ai nemici» (Discorso 284, 6).

Facilitare, non complicare. Un altro tratto dell’autentica opera missionaria è quello che rimanda alla pazienza di Gesù, che anche nei racconti del Vangelo accompagnava sempre con misericordia i passi di crescita delle persone. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può far contento il cuore di Dio più delle ampie falcate di chi procede nella vita senza grandi difficoltà. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa «debole con i deboli» (1 Cor 9,22). “Uscire” in missione per giungere alle periferie umane non vuol dire errare senza una direzione e senza senso, come venditori impazienti che si lamentano perché la gente è troppo rozza e primitiva per essere interessata alla loro merce.

A volte si tratta di rallentare il passo, per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte c’è da imitare il padre della parabola del figlio prodigo, che lascia le porte aperte e scruta ogni giorno l’orizzonte aspettando il ritorno di suo figlio (cfr Lc 15,20). La Chiesa non è una dogana, e chi in qualsiasi modo partecipa alla missione della Chiesa è chiamato a non aggiungere pesi inutili sulle vite già affaticate delle persone, a non imporre cammini di formazione sofisticati e affannosi per godere di ciò che il Signore dona con facilità. Non mettere ostacoli al desiderio di Gesù, che prega per ognuno di noi e vuole guarire tutti, salvare tutti.

Prossimità nella vita “in atto”. Gesù ha incontrato i suoi primi discepoli sulle rive del lago di Galilea, mentre erano intenti al loro lavoro. Non li ha incontrati a un convegno, o a un seminario di formazione, o al tempio. Da sempre, l’annuncio di salvezza di Gesù raggiunge le persone lì dove sono e così come sono, nelle loro vite in atto. L’ordinarietà della vita di tutti, nella partecipazione alle necessità, alle speranze e ai problemi di tutti, è il luogo e la condizione in cui chi ha riconosciuto l’amore di Cristo e ricevuto il dono dello Spirito Santo può rendere ragione, a coloro che lo chiedono, della fede, della speranza e della carità.

Camminando insieme con gli altri, al fianco di tutti. Soprattutto nel tempo in cui viviamo, non si tratta di inventare percorsi di addestramento “dedicati”, di creare mondi paralleli, di costruire bolle mediatiche in cui far riecheggiare i propri slogan, le proprie dichiarazioni d’intenti, ridotte a rassicuranti “nominalismi dichiarazionisti”. Ho ricordato altre volte, a titolo di esempio, che nella Chiesa c’è chi continua a far riecheggiare con enfasi lo slogan «È l’ora dei laici!», ma intanto l’orologio sembra essersi fermato.

Il “sensus fidei” del Popolo di Dio. C’è una realtà nel mondo che ha una specie di “fiuto” per lo Spirito Santo e la sua azione. È il Popolo di Dio, chiamato e prediletto da Gesù, e che a sua volta continua a cercare Lui e domanda sempre di Lui negli affanni della vita. Il Popolo di Dio mendica il dono del suo Spirito: affida la sua attesa alle parole semplici delle preghiere, e mai si accomoda nella presunzione della propria autosufficienza. Il santo Popolo di Dio radunato e unto dal Signore, in virtù di questa unzione è reso infallibile “in credendo”, come insegna la Tradizione della Chiesa.

Il lavoro dello Spirito Santo dota il Popolo dei fedeli di un “istinto” della fede – il sensus fidei– che lo aiuta a non sbagliare quando crede le cose di Dio, anche se non conosce ragionamenti e formule teologiche per definire i doni che sperimenta. Il mistero del popolo pellegrino, che con la sua spiritualità popolare cammina verso i santuari e si affida a Gesù, a Maria e ai santi, attinge e si mostra connaturale alla libera e gratuita iniziativa di Dio, senza dover seguire piani di mobilitazione pastorale.

Predilezione per i piccoli e i poveri. Ogni slancio missionario, se è mosso dallo Spirito Santo, manifesta la predilezione per i poveri e i piccoli come segno e riflesso della preferenza del Signore verso di loro. Le persone coinvolte direttamente in iniziative e strutture missionarie della Chiesa non dovrebbero mai giustificare la loro disattenzione verso i poveri con la scusa – molto usata in certi ambienti ecclesiastici – di dover concentrare le proprie energie su incombenze prioritarie per la missione. La predilezione per i poveri non è per la Chiesa un’opzione facoltativa.

Le dinamiche e gli approcci sopra descritti fanno parte della missione della Chiesa, animata dallo Spirito Santo. Di solito, negli enunciati e nei discorsi ecclesiastici, la necessità dello Spirito Santo come sorgente della missione della Chiesa viene riconosciuta e affermata. Ma accade anche che tale riconoscimento si riduca a una specie di “omaggio formale” alla Santissima Trinità, una formula convenzionale introduttiva per interventi teologici e piani pastorali. Ci sono nella Chiesa tante situazioni in cui il primato della grazia rimane solo come un postulato teorico, una formula astratta. Succede che tante iniziative e organismi legati alla Chiesa, invece di lasciar trasparire l’operare dello Spirito Santo, finiscono per attestare solo la propria autoreferenzialità. Tanti apparati ecclesiastici, ad ogni livello, sembrano risucchiati dall’ossessione di promuovere sé stessi e le proprie iniziative. Come se fosse quello l’obiettivo e l’orizzonte della loro missione.

Fin qui ho voluto riprendere e riproporre criteri e spunti sulla missione della Chiesa, che avevo già esposto in maniera più distesa nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. L’ho fatto perché credo che anche per le POM sia utile e fecondo – e non rinviabile – confrontarsi con quei criteri e suggerimenti, in questo tratto del loro cammino.

Talenti da sviluppare, tentazioni e malattie da evitare

Dove conviene guardare, per il presente e il futuro delle POM? Quali zavorre rischiano invece di appesantirne il cammino?

Nella fisionomia, direi nell’identità delle Pontificie Opere Missionarie si colgono certi tratti distintivi – alcuni, per così dire, genetici, altri acquisiti lungo il percorso storico – che vengono spesso trascurati o considerati come scontati. Eppure proprio quei tratti possono custodire e rendere prezioso, soprattutto nel tempo presente, il contributo di questa “rete” alla missione universale cui è chiamata tutta la Chiesa.

Le Opere Missionarie sono nate spontaneamente, dal fervore missionario espresso dalla fede dei battezzati. C’è e permane una consonanza intima, una familiarità tra le Opere Missionarie e il sensus fidei infallibile in credendo del Popolo fedele di Dio.

Le Opere Missionarie, fin dall’inizio, sono andate avanti procedendo su due “binari”, o meglio lungo due argini che corrono sempre paralleli, e nella loro elementarità sono da sempre familiari al cuore del Popolo di Dio: quello della preghiera e quello della carità, nella forma dell’elemosina, che «salva dalla morte e purifica da ogni peccato» (Tb 12,9), la «carità fervente» che «copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8). Gli iniziatori delle Opere Missionarie, a partire da Pauline Jaricot, non inventarono le preghiere e le opere a cui affidare i loro desideri riguardo all’annuncio del Vangelo, ma li trassero semplicemente dal tesoro inesauribile dei gesti più familiari e abituali per il Popolo di Dio in cammino nella storia.

Le Opere Missionarie, sorte in maniera gratuita nella trama di vita del popolo di Dio, per la loro configurazione semplice e concreta sono state riconosciute e stimate dalla Chiesa di Roma e dai suoi Vescovi, i quali nell’ultimo secolo hanno chiesto di poterle adottare come peculiare strumento del servizio da essi reso alla Chiesa universale. Per questa via è stato attribuita a tali Opere la qualifica di “Pontificie”. Da quel momento, risalta nella fisionomia delle POM la loro caratteristica di strumento di servizio a sostegno delle Chiese particolari, nell’opera di annuncio del Vangelo.

Per questa medesima via le Pontificie Opere Missionarie si sono offerte con docilità come strumento di servizio alla Chiesa, in seno al ministero universale svolto dal Papa e dalla Chiesa di Roma, che «presiede nella carità». In questo modo, con il loro stesso percorso, e senza entrare in complesse dispute teologiche, le POM hanno smentito gli argomenti di chi, anche negli ambienti ecclesiastici, contrappone in maniera impropria carismi e istituzioni, leggendo sempre i rapporti tra queste realtà attraverso una ingannevole “dialettica dei principi”.

Mentre nella Chiesa anche gli elementi strutturali permanenti – come i sacramenti, il sacerdozio e la successione apostolica – vanno continuamente ricreati dallo Spirito Santo, e non sono a disposizione della Chiesa come un oggetto di possesso acquisito (cfr Card. J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica. Intervento al Convegno mondiale dei movimenti ecclesiali, Roma, 27-29 maggio 1998).

Le Opere missionarie, fin dalla loro prima diffusione, si sono strutturate come una rete capillare diffusa nel Popolo di Dio, pienamente ancorata e di fatto “immanente” alla rete delle preesistenti istituzioni e realtà della vita ecclesiale, come le diocesi, le parrocchie, le comunità religiose. La vocazione peculiare delle persone coinvolte nelle Opere Missionarie non è mai stata vissuta e percepita come una via alternativa, un’appartenenza “esterna” rispetto alle forme ordinarie della vita delle Chiese particolari. La sollecitazione a pregare e raccogliere risorse per la missione è sempre stata esercitata come un servizio alla comunione ecclesiale.

Le Opere Missionarie, diventate col tempo rete diffusa in tutti i Continenti, riflettono per la loro stessa configurazione la varietà di accenti, condizioni, problemi e doni che connotano la vita della Chiesa nei diversi luoghi del mondo. Una pluralità che può proteggere da omologazioni ideologiche e unilateralismi culturali. In questo senso, anche attraverso le POM si può sperimentare il mistero dell’universalità della Chiesa, in cui l’opera incessante dello Spirito Santo crea l’armonia tra le voci diverse, mentre il Vescovo di Roma, con il suo servizio di carità, esercitato anche attraverso le Pontificie Opere Missionarie, custodisce l’unità nella fede.

Tutte le caratteristiche fin qui descritte possono aiutare le Pontificie Opere Missionarie a sottrarsi alle insidie e patologie incombenti sul loro cammino e su quello di tante altre istituzioni ecclesiali. Ne segnalo alcune.

Insidie da evitare

Autoreferenzialità. Organizzazioni ed entità ecclesiastiche, al di là delle buone intenzioni dei singoli, finiscono talvolta per ripiegarsi su sé stesse, dedicando energie e attenzioni soprattutto alla propria auto-promozione e alla celebrazione in chiave pubblicitaria delle proprie iniziative. Altre sembrano dominate dall’ossessione di ridefinire continuamente la propria rilevanza e i propri spazi in seno alla Chiesa, con la giustificazione di voler rilanciare al meglio la propria missione.

Per queste vie – ha detto una volta l’allora Cardinale Joseph Ratzinger – si alimenta anche l’idea ingannevole che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in strutture intra-ecclesiali, mentre in realtà quasi tutti i battezzati vivono la fede, la speranza e la carità nelle loro vite ordinarie, senza essere mai comparsi in comitati ecclesiastici e senza occuparsi degli ultimi sviluppi di politica ecclesiastica (cfr Una compagnia sempre riformanda, Conferenza al Meeting di Rimini, 1 settembre 1990).

Ansia di comando. A volte capita che istituzioni e organismi sorti per aiutare le comunità ecclesiali, servendo i doni suscitati in esse dallo Spirito Santo, col tempo pretendano di esercitare supremazie e funzioni di controllo nei confronti delle comunità che dovrebbero servire. Questo atteggiamento si accompagna quasi sempre con la presunzione di esercitare il ruolo di “depositari” dispensatori di patenti di legittimità nei confronti degli altri. Di fatto, in questi casi ci si comporta come se la Chiesa fosse un prodotto delle nostre analisi, dei nostri programmi, accordi e decisioni.

Elitarismo. Tra chi fa parte di organismi e realtà organizzate nella Chiesa, prende piede diverse volte un sentimento elitario, l’idea non detta di appartenere a un’aristocrazia. Una classe superiore di specialisti che cerca di allargare i propri spazi in complicità o in competizione con altre elite ecclesiastiche, e addestra i suoi membri secondo i sistemi e le logiche mondani della militanza o della competenza tecnico-professionale, sempre con l’intento primario di promuovere le proprie prerogative oligarchiche.

Isolamento dal popolo. La tentazione elitista in alcune realtà connesse alla Chiesa si accompagna talvolta a un sentimento di superiorità e di insofferenza verso la moltitudine dei battezzati, verso il popolo di Dio che magari frequenta le parrocchie e i santuari, ma non è composto di “attivisti” occupati in organizzazioni cattoliche. In questi casi, anche il popolo di Dio viene guardato come una massa inerte, che ha sempre bisogno di essere rianimata e mobilitata attraverso una “presa di coscienza” da stimolare attraverso ragionamenti, richiami, insegnamenti. Si agisce come se la certezza della fede fosse conseguenza di un discorso persuasivo o di metodi di addestramento.

Astrazione. Organismi e realtà legate alla Chiesa, quando diventano autoreferenziali, perdono il contatto con la realtà e si ammalano di astrazione. Si moltiplicano inutili luoghi di elaborazione strategica, per produrre progetti e linee-guida che servono solo come strumenti di autopromozione di chi li inventa. Si prendono i problemi e li si seziona in laboratori intellettuali, dove tutto viene addomesticato, verniciato secondo le chiavi ideologiche di preferenza. Dove tutto, fuori dal contesto reale, può essere cristallizzato in simulacro, anche i riferimenti alla fede o i richiami verbali a Gesù e allo Spirito Santo.

Funzionalismo. Le organizzazioni autoreferenziali ed elitarie, anche nella Chiesa, finiscono spesso per puntare tutto sull’imitazione dei modelli di efficienza mondani, come quelli imposti dalla esasperata competizione economica e sociale. La scelta del funzionalismo garantisce l’illusione di “sistemare i problemi” con equilibrio, tenere le cose sotto controllo, accrescere la propria rilevanza, migliorare l’ordinaria amministrazione dell’esistente. Ma come già vi dissi nell’incontro che abbiamo avuto nel 2016, una Chiesa che ha paura di affidarsi alla grazia di Cristo e punta sull’efficientismo degli apparati è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli.

Consigli per il cammino

Guardando al presente e al futuro, e cercando anche nel percorso delle POM le risorse per superare le insidie del cammino e andare avanti, mi permetto di dare alcuni suggerimenti, per aiutare il vostro discernimento. Dal momento che avete intrapreso anche un percorso di riconsiderazione delle POM, che volete sia ispirato dalle indicazioni del Papa, offro alla vostra attenzione criteri e spunti generali, senza entrare nei dettagli, anche perché i diversi contesti possono richiedere adattamenti e varianti

Per quello che potete, e senza farci sopra troppe congetture, custodite o riscoprite l’inserimento delle POM in seno al Popolo di Dio, la loro immanenza alla trama di vita reale in cui sono nate. Farà bene una più intensa “immersione” nella vita reale delle persone, così com’è. Fa bene a tutti uscire dal chiuso delle proprie problematiche interne, quando si segue Gesù. Conviene calarsi nelle circostanze e nelle condizioni concrete, anche curando o provando a reintegrare la capillarità dell’azione e dei contatti delle POM, nel suo intrecciarsi alla rete ecclesiale (diocesi, parrocchie, comunità, gruppi).

Se si privilegia la propria immanenza al Popolo di Dio, con le sue luci e le sue difficoltà, si riesce a sfuggire meglio anche all’insidia dell’astrazione. Occorre dare risposte a domande ed esigenze reali, più che formulare e moltiplicare proposte. Forse nel corpo a corpo con la vita in atto, e non dai cenacoli chiusi, o dalle analisi teoriche sulle proprie dinamiche interne, possono arrivare anche intuizioni utili per cambiare e migliorare le proprie procedure operative, adattandole ai diversi contesti e alle diverse circostanze.

Suggerisco di fare in modo che l’impianto essenziale delle POM rimanga quello legato alle pratiche della preghiera e della raccolta di risorse per la missione, prezioso e caro proprio per la sua elementarità e la sua concretezza. Esso esprime l’affinità delle POM con la fede del Popolo di Dio. Con tutta la flessibilità e gli adattamenti richiesti, conviene che questo disegno elementare delle POM non venga dimenticato o stravolto.

Preghiere al Signore perché apra Lui i cuori al Vangelo, e suppliche a tutti affinché sostengano anche concretamente l’opera missionaria: c’è in questo una semplicità e una concretezza che tutti possono avvertire con godimento nel tempo presente, in cui anche nella circostanza del flagello della pandemia si avverte dovunque il desiderio di incontrare e rimanere vicino a tutto ciò che è semplicemente Chiesa. Cercate pure nuove strade, nuove forme per il vostro servizio; ma, nel fare questo, non serve complicare ciò che è semplice.

Le POM sono e vanno vissute come uno strumento di servizio alla missione nelle Chiese particolari, nell’orizzonte della missione della Chiesa, che abbraccia sempre tutto il mondo. In questo consiste il loro contributo sempre prezioso all’annuncio del Vangelo. Siamo tutti chiamati a custodire per amore e gratitudine, anche con le vostre opere, i germogli di vita teologale che lo Spirito di Cristo fa sbocciare e crescere dove vuole Lui, anche nei deserti. Per favore, nella preghiera chiedete per prima cosa che il Signore ci renda tutti più pronti a cogliere i segni del suo operare, per poi indicarli a tutto il mondo. Questo solo può essere utile: chiedere che per noi, per l’intimo del nostro cuore, l’invocazione allo Spirito Santo non sia ridotta a un postulato sterile e ridondante delle nostre riunioni e delle nostre omelie.

Mentre non serve fare congetture e teorizzare su super-strateghi o “centrali direttive” della missione, a cui delegare, come a presunti e immodesti “depositari” della dimensione missionaria della Chiesa, l’impresa di ridestare lo spirito missionario o di dare patenti di missionarietà agli altri. Se in alcune situazioni il fervore della missione viene meno, è segno che sta venendo meno la fede. E, in quei casi, la pretesa di rianimare la fiamma che si spegne con strategie e discorsi finisce per indebolirla ancora di più, e fa avanzare solo il deserto.

Il servizio svolto dalle POM porta per sua natura gli operatori a contatto con innumerevoli realtà, situazioni ed eventi che fanno parte del grande flusso della vita della Chiesa, in tutti i Continenti. In questo flusso ci si può imbattere in tante pesantezze e sclerosi che accompagnano la vita ecclesiale, ma anche nei doni gratuiti di guarigione e consolazione che lo Spirito Santo dissemina nella vita quotidiana di quella che si potrebbe chiamare la “classe media della santità”. E voi potete rallegrarvi ed esultare, gustando gli incontri che vi possono capitare grazie al lavoro delle POM, lasciandovi sorprendere da essi.

Penso ai racconti ascoltati di tanti miracoli che accadono tra i bambini, che magari incontrano Gesù attraverso le iniziative proposte dall’Infanzia missionaria. Per questo la vostra è un’opera che non va mai “sterilizzata” in una dimensione esclusivamente burocratico-professionale. Non possono esistere burocrati o funzionari della missione. E la vostra gratitudine può diventare a sua volta un dono e una testimonianza per tutti. Potete indicare per il conforto di tutti, con i mezzi che avete, senza artificiosità, le vicende di persone e comunità che voi potete incontrare con più facilità di altri, persone e comunità in cui risplende gratuitamente il miracolo della fede, della speranza e della carità.

La gratitudine davanti ai prodigi che opera il Signore tra i suoi prediletti, i poveri e i piccoli a cui Lui rivela le cose nascoste ai sapienti (cfr Mt 11,25-26), può rendere più facile anche per voi sottrarsi alle insidie dei ripiegamenti autoreferenziali e uscire da sé stessi, seguendo Gesù. L’idea di una missionarietà autoreferenziale, che passa il tempo a contemplare e auto-incensarsi per le proprie iniziative, sarebbe in sé stessa un assurdo. Non consumate troppo tempo e risorse a “guardarvi addosso”, a elaborare piani auto-centrati sui meccanismi interni, su funzionalità e competenze del proprio apparato.

Guardate fuori, non guardatevi allo specchio. Rompete tutti gli specchi di casa. I criteri da seguire, anche nella realizzazione dei programmi, puntino ad alleggerire, a rendere flessibili strutture e procedure, piuttosto che appesantire con ulteriori elementi di apparato la rete delle POM. Ad esempio, ogni direttore nazionale, durante il suo mandato, si impegni a individuare le figure di qualche potenziale successore, avendo come unico criterio quello di segnalare non persone del suo giro di amici o compagni di “cordata” ecclesiastica, ma persone che gli sembrano avere più fervore missionario di lui.

Riguardo alla raccolta di risorse per aiutare la missione, in occasione dei nostri incontri passati ho già richiamato il rischio di trasformare le POM in una ONG tutta votata al reperimento e allo stanziamento dei fondi. Questo dipende dal cuore con cui si fanno le cose, più che dalle cose che si fanno. Nella raccolta di fondi può essere certo consigliabile e addirittura opportuno utilizzare con creatività anche metodologie aggiornate di reperimento dei finanziamenti da parte di potenziali e benemeriti sovventori. Ma se in alcune aree la raccolta di donazioni viene meno, anche per l’affievolirsi della memoria cristiana, in quei casi può venire la tentazione di risolvere noi il problema “coprendo” la realtà e puntando su qualche sistema di raccolta più efficace, che vada alla ricerca dei grandi donatori. Invece la sofferenza per il venir meno della fede e anche per il calare delle risorse non va rimossa, va messa nelle mani del Signore.

E comunque è bene che la richiesta di offerte per le missioni continui a essere rivolta prioritariamente a tutta la moltitudine dei battezzati, anche puntando in maniera nuova sulla colletta per le missioni che si effettua nelle chiese di tutti i Paesi a ottobre, in occasione della Giornata Missionaria Mondiale. La Chiesa continua da sempre ad andare avanti anche grazie all’obolo della vedova, al contributo di tutta quella schiera innumerevole di persone che si sentono guarite e consolate da Gesù e che per questo, per il traboccare della gratitudine, donano quello che hanno.

Riguardo all’uso delle donazioni ricevute, vagliate sempre con appropriato sensus Ecclesiae la redistribuzione dei fondi a sostegno di strutture e progetti che realizzano in vario modo la missione apostolica e l’annuncio del Vangelo nelle diverse parti del mondo. Si tenga sempre conto delle reali necessità primarie delle comunità, e nel contempo si evitino forme di assistenzialismo, che invece di offrire strumenti al fervore missionario finiscono per intiepidire i cuori e alimentare anche nella Chiesa fenomeni di clientelismo parassitario. Con il vostro contributo puntate a dare risposte concrete a esigenze oggettive, senza dilapidare risorse in iniziative connotate da astrattezza, auto-referenzialità o partorite dal narcisismo clericale di qualcuno.

Non cedete a complessi di inferiorità o tentazioni di emulazione verso quelle organizzazioni super-funzionali che raccolgono fondi per cause giuste, poi utilizzati in buona percentuale per finanziare il proprio apparato e per fare pubblicità al proprio marchio. Anche quella a volte diventa una strada per curare innanzitutto i propri interessi, pur mostrando di operare a vantaggio dei poveri e di chi è nel bisogno.

Riguardo ai poveri, anche voi non dimenticatevi di loro. Questa fu la raccomandazione che, al Concilio di Gerusalemme, gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo diedero a Paolo, Barnaba e Tito, venuti a discutere della loro missione tra i non circoncisi: «Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri» (Gal 2,10). Dopo quella raccomandazione, Paolo organizzò le collette in favore dei fratelli della Chiesa di Gerusalemme (cfr 1 Cor 16,1). La predilezione per i poveri e i piccoli fa parte fin dall’inizio della missione di annunciare il Vangelo. Le opere di carità spirituale e corporale verso di loro manifestano una “preferenza divina” che interpella la vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere gli stessi sentimenti di Gesù (cfr Fil 2,5).

Le POM, con la loro rete diffusa in tutto il mondo, rispecchiano la ricca varietà del “popolo dai mille volti raccolto dalla grazia di Cristo, con il suo fervore missionario. Fervore che non è intenso e vivace sempre e dovunque alla stessa maniera. E comunque, nel condividere la stessa urgenza di confessare Cristo morto e risorto, si esprime con accenti diversi, adattandosi a diversi contesti. La rivelazione del Vangelo non si identifica con nessuna cultura e, nell’incontro con nuove culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non bisogna imporre una determinata forma culturale insieme con la proposta evangelica. Oggi, anche nel lavoro delle POM, conviene non portare bagagli pesanti; conviene custodire il loro profilo vario e il loro comune riferimento ai tratti essenziali della fede.

Può fare ombra all’universalità della fede cristiana anche la pretesa di standardizzare la forma dell’annuncio, magari puntando tutto su clichè e slogan che vanno di moda in certi circoli di certi Paesi culturalmente o politicamente dominanti. A questo riguardo, anche il rapporto speciale che unisce le POM al Papa e alla Chiesa di Roma rappresenta una risorsa e un sostegno di libertà, che aiuta tutti a sottrarsi a mode passeggere, appiattimenti su scuole di pensiero unilaterali o omologazioni culturali di impronta neo-colonialista. Fenomeni che purtroppo si registrano anche in contesti ecclesiastici.

Le POM non sono nella Chiesa un’entità a sé stante, sospesa nel vuoto. Tra le loro specificità che conviene sempre coltivare e rinnovare c’è il vincolo speciale che le unisce al Vescovo della Chiesa di Roma, che presiede nella carità. È bello e confortante riconoscere che questo vincolo si manifesta in un lavoro condotto in letizia, senza cercare applausi o accampare pretese. Un’opera che proprio nella sua gratuità si intreccia con il servizio del Papa, servo dei servi di Dio. Vi chiedo che il carattere distintivo della vostra vicinanza al Vescovo di Roma sia proprio questo: la condivisione dell’amore alla Chiesa, riflesso per l’amore verso Cristo, vissuto ed espresso nel silenzio, senza gonfiarsi, senza marcare i “propri territori”.

Con un lavoro quotidiano che attinga alla carità e al suo mistero di gratuità. Con un’opera che sostenga innumerevoli persone interiormente grate, ma che magari non sanno nemmeno chi ringraziare, perché delle POM non conoscono neanche il nome. Il mistero della carità, nella Chiesa, si realizza così. Continuiamo ad andare avanti insieme, contenti di avanzare tra le prove grazie ai doni e alle consolazioni del Signore. Mentre, ad ogni passo, riconosciamo in letizia di essere tutti servi inutili, a partire da me.

Conclusione

Partite con slancio: nel cammino che vi aspetta ci sono tante cose da fare. Se ci sono cambiamenti da sperimentare nelle procedure, è bene che essi puntino ad alleggerire, e non ad aumentare i pesi; che siano volti a guadagnare flessibilità operativa, e non a produrre ulteriori apparati rigidi e sempre minacciati di introversione. Tenendo presente che un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, può complicare la dinamica missionaria. E anche un’articolazione su scala puramente nazionale delle iniziative mette a repentaglio la fisionomia stessa della rete delle POM, nonché lo scambio di doni tra Chiese e comunità locali vissuto come frutto e segno tangibile della carità tra i fratelli, nella comunione con il Vescovo di Roma.

In ogni caso, chiedete sempre che ogni considerazione riguardante l’assetto operativo delle POM sia illuminata dall’unica cosa necessaria: un po’ d’amore vero alla Chiesa, come riflesso dell’amore a Cristo. Il vostro è un servizio reso al fervore apostolico, cioè a uno slancio di vita teologale che solo lo Spirito Santo può operare nel Popolo di Dio. Voi pensate a fare bene il vostro lavoro, «come se tutto dipendesse da voi, sapendo che in realtà tutto dipende da Dio» (S. Ignazio di Loyola).

Come vi ho già detto in un nostro incontro, abbiate la prontezza di Maria. Quando andò da Elisabetta, Maria non lo fece come un gesto proprio: andò come una serva del Signore Gesù, che portava in grembo. Di sé stessa non disse nulla, soltanto portò il Figlio e lodò Dio. Non era lei la protagonista. Andava come la serva di Colui che è anche l’unico protagonista della missione. Ma non perse tempo, andò di fretta, a fare cose per accudire la sua congiunta. Lei ci insegna questa prontezza, la fretta della fedeltà e dell’adorazione.

La Madonna custodisca voi e le Pontificie Opere Missionarie, e vi benedica suo Figlio, il Signore Nostro Gesù Cristo. Lui, prima di salire al Cielo, ci ha promesso di stare sempre con noi. Fino alla fine del tempo.

  • Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 21 maggio 2020, Solennità dell’Ascensione del Signore.
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