Le memorie ferite delle popolazioni balcaniche del ’900 tornano a inquietare le relazioni fra i popoli. È il caso del 75mo anniversario dell’eccidio dei campi di Bleiburg, celebrato il 16 maggio dal card. Vinko Puljic. Negli ultimi giorni di guerra circa 100.000 persone, in prevalenza croate, ma anche slovene e bosniache, guidate da armati collaborazionisti con gli ex-occupanti nazisti, che avevano militato negli ustascia croati e nei landwehr sloveni, si accalcavano alla frontiere con l’Austria per arrendersi agli alleati (in questo caso inglesi) e non all’armata di liberazione nazionale di Tito.
Assieme ai militari, ai responsabili degli eccidi nazisti e dei campi di concentramento contro i partigiani, ebrei e musulmani, vi era molta altre gente: donne, bambini e persone comuni che temevano il nuovo potere rosso. I miliari inglesi rifiutarono la resa e obbligarono a gettare le armi, riconsegnando tutti alle milizie titine che avevano occupato le alture attorno ai campi di Bleiburg.
Quello che è successo dopo sono storie ancora non chiarite di violenze, uccisioni, marce della morte, infoibati e torturati. Una delle molte pagine oscure che alcuni sopravvissuti, ispirati dalla destra estrema, hanno cominciato a celebrare nell’area (di appartenenza austriaca) negli anni ’50. Una memoria dal tono filo-nazista, con le bandiere ustascia, i riti cattolici e il consenso allora un po’ folcloristico delle destre estreme d’Europa.
Narrazioni inconciliabili
Dopo l’implosione della Iugoslavia, le guerre nazionali degli anni ’90 e la formazione dei nuovi Stati balcanici, la memoria dei campi di Bleiburg ha assunto un tono di maggior profilo, con una forte impronta croata, senza tuttavia riuscire a scrollarsi di dosso il peso dell’interpretazione settaria precedente. Tanto da convincere la diocesi di Klagenfurt a negare la possibilità di una celebrazione eucaristica nel 2019 a causa dei disordini registrati l’anno precedente.
Quest’anno, nell’impossibilità di raggiungere il territorio austriaco a causa della pandemia, le celebrazioni sono state fatta a Sarajevo col card. Puljic (Bosnia) e a Zagabria (Croazia), nel cimitero di guerra. L’ampia omelia del cardinale, che celebrava nella cattedrale della città dedicata al Sacro Cuore, fa forza su tre elementi: l’uso sistematico di “vittime” e non di “vittime innocenti” (eccetto due casi particolari), la diversa condizione degli stati e dei popoli dopo gli anni ’90 con la fine del regime comunista e l’insistenza sulla necessità della verità per una memoria riconciliata.
Con tratti personali molto evidenti: «Sono molto colpito dal fatto che in tutti gli anni della mia vita – e sono nato nell’anno di questa tragedia della nostra gente – il velo del silenzio non sia mai stato sollevato e non tutti i cimiteri e le fosse comuni in cui il nostro popolo è stato massacrato e ucciso siano stati scoperti e onorati. Sono nato quando, sotto l’ala della vittoria, si portava a compimento l’illegalità e l’arbitrarietà dei massacri da parte di chi ribolliva di odio. Quello che allora si sussurrava agli orecchi posso ora scriverlo e dirlo ad alta voce. Nei mesi di maggio e giugno apparivano qua e là nei campi lumini votivi, sui luoghi delle tombe, delle esecuzioni e degli eccidi. Ora chi poteva ricordare è ormai morto e non si vedono più candele accese nei campi e nelle foreste, in memoria delle vittime dell’odio». A distanza di tanti anni è necessario «purificarsi da tutti i sentimenti amari e le critiche aggressive» per affidare alla preghiera «il dovuto rispetto a tutte le vittime» e cogliere il «prezzo della libertà».
La pace è un dono e una conquista. Non può essere delegata solo alle istituzioni, essa dipende dalla riscoperta della solidarietà dei cuori «che, dopo tanto sangue e odio, presuppone il coraggio del perdono. È necessario cercare il perdono e perdonare». Senza per questo azzerare la richiesta di giustizia, al di là di ogni istinto cieco e vendetta gratuita. «Non possiamo dimenticare coloro che hanno messo fine alla loro vita terrena in circostanze così difficili, che sono stati torturati e lasciati morire in modo crudele». Onore quindi a tutte le vittime, prima della guerra, durante la guerra e fino ai nostri giorni.
Lo si può fare solo in un clima di coesistenza, perdono, riconciliazione e reciproca fiducia, ma sulla base della verità. «Solo accettando la verità, per quanto amara possa essere, si libera lo spazio per creare fiducia fra le persone». Non si difende un crimine con un altro crimine, non si insultano le vittime in nome di altre vittime. In questo anniversario «vogliamo alzare la voce per gridare di finirla di manipolare le vittime», di piegarle alle esigenze ideologiche, politiche ed etniche, per affidarle tutte alla misericordia di Dio.
La protesta civile
Le contorte radici storiche, il peso della destra politica e i nuovi condizionamenti nazionalistici ed etnici hanno messo in allarme la società civile. Il presidente della comunità ebraica di Sarajevo, Jakob Finci, ha scritto in una lettera aperta che la celebrazione «onorava i carnefici delle nostre madri, padri, nonni, concittadini e tutti gli altri uomini innocenti che erano stati uccisi dallo “Stato indipendente croato” di indirizzo fascista». Circa cinquemila persone hanno partecipato a una manifestazione pacifica attraverso la città, guidata dall’associazione antifascista e dai veterani di guerra. Si sono ricordate la ultime vittime della violenza ustascia in città, l’impiccagione di 55 militanti antifascisti nel marzo del 1945. Si è ricordata anche l’analoga manifestazione del 5 aprile 1992 davanti al pericolo mortale dell’assedio dei nazionalisti serbi alla città.
L’intellettuale Haris Pasovic ha detto: «Ho paura che questa messa sia una trappola dei nazionalisti croati per ridare fuoco alle polveri esplosive», e mettere in pericolo il diritto di vivere assieme fra etnie diverse. Per la commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, «c’è il rischio di glorificare i sostenitori del regime ustascia filonazista, complici della morte di centinaia di migliaia di esseri umani», un grave impedimento allo sforzo di riconciliazione civile. La proposta del card. Schönborn di Vienna per una commissione storica con rappresentanti dei diversi stati (Austria compresa) per un’indagine rigorosa e condivisa sui fatto dei campi di Bleiburg non ha avuto finora alcun esito.