Uno degli aspetti caratteristici della tradizione cattolica è che essa ha sempre guardato con simpatia alla ragione, ritenendo che rappresenti una dimensione costitutiva dell’essere umano che deve essere coinvolta nella scelta della fede e nell’esistenza evangelica che ne segue. In effetti, il cristianesimo non è un’opzione irrazionale, illogica, che va contro le esigenze dell’intelligenza, ma ha una sua ragionevolezza, sebbene ben diversa da quella scientifica.
Questa convinzione, però, può portare a pensare erroneamente che l’esperienza cristiana possa essere vissuta nei limiti della sola ragione, e a ritenere che quegli aspetti del cristianesimo che non paiono “sensati” possano e debbano essere abbandonati. In questo modo la propria visione della realtà o quella della cultura a cui si appartiene diventa la norma per giudicare la dottrina della fede e per epurarla di aspetti e di posizioni che per qualche ragione si ritengono irragionevoli o inaccettabili.
Teologia è pensare la fede della Chiesa
Secondo il padre Y. Congar, questo approccio è esattamente quello che ha portato alcuni cristiani nella via dell’eresia, come egli stesso afferma in questo passaggio della sua opera Vera e falsa riforma nella Chiesa: «Invece di prendere il cristianesimo come costituito nella Chiesa, come una realtà esistente a cui ci si deve assimilare, l’eretico lo considera alla stregua di un soggetto di pensiero da costruire mediante l’intelligenza. Nell’eretico viene in primo luogo il contegno critico e costruttivo dello spirito; il fedele mette in primo piano la sottomissione alla realtà costituita e la vita nella realtà cristiana in seno alla Chiesa; il ragionamento non interviene che in seguito, e si esercita allora con grande libertà, ma nella Chiesa e secondo il suo spirito. Per l’eretico, la Chiesa è o può essere ancora da inventare, da costruire; per il fedele, essa esiste concretamente, ma occorre servirla, alimentarla, agire nel suo ambito» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 192-193).
Insomma, è necessario impiegare la propria ragione per pensare la fede della Chiesa, cioè per comprenderla meglio anche alla luce delle istanze della cultura in cui si vive – questo è il compito della teologia –, ma ciò deve avvenire dopo averla accettata nella sua integralità così come è stata trasmessa.
In fondo, il cristianesimo non è un’avventura intellettuale individuale o l’esito creativo di una ricerca di Dio in cui fa testo la propria intelligenza, ma nasce dall’accoglienza della testimonianza ecclesiale su Gesù Cristo e sul Padre e sulla vocazione del mondo intero alla salvezza. La razionalità teologica serve a capire e ad accogliere in modo umano questo dono, non a giudicarlo.
Purtroppo, il rischio di usare in modo improprio la ragione nell’esperienza cristiana è presente ancora oggi. La creatività di alcuni cristiani, anche ministri della Chiesa, può spingerli a proporre un cristianesimo molto coinvolgente perché epurato di quegli aspetti che, nella nostra cultura, risultano problematici. Non di rado chi agisce in questo modo ha un grande successo sul piano pastorale, perché offre alle persone, soprattutto ai giovani, un progetto di vita che consente loro di pensare di essere ancora profondamente cristiani e, nello stesso tempo, di non rinunciare a nessuna delle istanze e delle convenzioni caratteristiche della loro mentalità. Il cristianesimo diventa allora un rivestimento religioso dell’etica o del buon senso comune, e se questo nell’immediato può creare un grande entusiasmo, alla lunga allontana le persone dalla vita ecclesiale. In fondo, se la fede non è che una legittimazione religiosa delle opinioni correnti, non serve a nulla.
Vera e falsa inculturazione
Una versione particolarmente complessa di questo problema emerge all’interno del tema dell’inculturazione dell’annuncio evangelico. Come è emerso anche nel recente sinodo sull’Amazzonia, la comunicazione della fede deve essere sempre inculturata, cioè declinata all’interno dei simboli e dei linguaggi di una determinata cultura perché, in caso contrario, non verrebbe compresa. Tuttavia, talora si intende tale inculturazione come ciò che può rendere la fede accettabile come qualcosa di ovvio e di scontato.
In realtà, la scelta di essere cristiani ha sempre un tratto drammatico, perché la ragione non può offrire le garanzie necessarie a garantire la bontà di questa decisione. È l’amore, infatti, che ultimamente spinge a buttarsi nella relazione “pericolosa” con Gesù e con il Padre nella forza dello Spirito. Scegliere di essere cristiani, insomma, è un po’ come decidere di sposarsi, cioè di donare la propria vita ad un’altra persona per sempre e totalmente. La propria ragione potrà e dovrà offrire alcune motivazioni a favore di questa scelta, ma certamente non potrà garantire con sicurezza assoluta che sia quella giusta. Alla fine, ci si decide soltanto se si smette di ragionare e ci si lascia guidare dall’amore per l’altra persona.
Avviene qualcosa di analogo nella scelta cristiana, in cui ci si impegna con tutto se stessi senza disporre di quelle certezze che la ragione vorrebbe, perché si hanno solo le garanzie che l’amore può dare. Per questo la testimonianza di chi si è già fidato e sta percorrendo con gioia questo cammino – e soprattutto di chi lo ha già percorso al meglio, cioè dei santi – risulta di grande importanza.
Dunque, l’inculturazione non serve a rendere il cristianesimo qualcosa di ovvio. Anzi, il calo delle vocazioni al ministero ordinato, alla vita consacrata e al matrimonio cristiano, come pure il fatto che tante persone oggi scelgano di non credere, non sono necessariamente dovuti ad una cattiva traduzione del cristianesimo nella culture odierne, ma più probabilmente ad una sorta di paura delle comunità a proporre l’esperienza cristiana nella sua drammaticità.
Eppure, la decisione di seguire il Signore non deriva dalla nostra capacità di motivarne la ragionevolezza o la normalità, ma dall’azione dello Spirito che, a fronte di un autentico annuncio del Vangelo, muove nell’intimo le persone e dona loro la forza di ascoltare le ragioni dell’amore.