Dopo la Direzione del Pd del 4 luglio, l’ombra catastrofica del referendum costituzionale si estende. Inizialmente, pareva alludere a una questione di personale dignità del presidente Renzi, troppo impegnato nella vicenda per sopravvivere (politicamente) ad una sconfitta. Ma poi, con il passare dei giorni e l’intensificarsi degli inviti a “spersonalizzare”, la minaccia s’è fatta valanga: che incombe ormai non solo sul governo ma anche sullo stesso Parlamento.
Renzi ha usato il garbo istituzionale: “io penso”, ha detto. Epperò ha messo sul tavolo tutte le carte politiche e istituzionali atte a sostenere quel suo pensiero. Lo ha fatto inserendo nella sua relazione non già il testo ma il filmato del famoso discorso con cui il presidente Napolitano, accettando la rielezione, diffida il Parlamento: se non fate le riforme ne porterete la responsabilità. Non può essere stata una trovata estemporanea. Era un argomento forte per avvalorare il suo pensiero.
Pressione politica
Così, accanto al lamento della Cassandra confindustriale, che paventa il collasso dell’economia in caso di vittoria del “no”, va considerata anche la prospettiva della dissoluzione della legislatura. E se è vero che una decisione al riguardo spetta al presidente della Repubblica in carica, è giusto ritenere che il “pensiero” del presidente del Consiglio, nei termini e nei modi in cui è stato formulato, abbia quantomeno il significato di una forte pressione politica: sul Quirinale, per un verso, e sulle forze politiche, per un altro. Lo scioglimento anticipato delle Camere farebbe, infatti, cadere l’impegno di svolgere le elezioni nel 1918, data naturale di compimento della legislatura.
In ogni caso si accentuerebbero i fattori che descrivono una situazione di emergenza, il contrario degli auspici di quanti chiedevano di “spersonalizzare” il quadro, come sinonimo di sdrammatizzare, nel senso di far rientrare il tutto, per quanto possibile, nell’ambito della normalità istituzionale.
In queste condizioni la condotta del governo – di questo governo – è sottoposta ad un supplemento di sforzo – una sorta di stress referendario – del quale molti avrebbero fatto volentieri a meno. Sono tante le questioni che richiedono il massimo impegno dell’istituzione governo: dalle conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE all’insorgenza del terrorismo in Bangladesh, per non parlare dell’immigrazione e dei conflitti nell’area mediterranea. Un governo sottoposto a referendum è davvero il meglio che ci si possa attendere in un contesto drammaticamente complicato come quello del tempo presente?
Un tale interrogativo non è stato esplicitamente formulato nella citata direzione del Pd. Eppure, il referendum costituzionale implica come propria posta in giuoco – cioè come proprio “merito” – l’esistenza, la funzionalità e l’efficienza di un esecutivo autorevole e credibile. Ma i temi-chiave dell’azione di governo (e del suo aggiornamento, o rilancio o svolta a seconda delle opinioni, ma non delle propensioni) sono tornati al centro dell’attenzione, soprattutto alla luce dell’esito non smagliante della recente consultazione amministrativa. Le sollecitazioni sono state molteplici e anche robuste non solo da parte delle minoranza.
Strategia sociale cercasi
Una cifra riassuntiva delle sollecitazioni rivolte al governo da parte del partito di maggioranza, è sicuramente rappresentata dalla richiesta di una più esplicita e consapevole “strategia sociale”. Vorrebbe essere il superamento degli interventi episodici – cioè tattici – con la conseguente definizione di una linea di intervento che abbia nel criterio dell’uguaglianza il proprio tratto qualificante. Un governo che fa tante cose, molte anche buone, ha bisogno di valorizzarne il significato di effettivo cambiamento. Per molti è il recupero di una fisionomia di sinistra, con attenzione ai voti mancati, per altri è l’auspicio di un riformismo che non sia la semplice lubrificazione degli ingranaggi del sistema.
Sul punto la direzione non ha votato. L’unica decisione è stata quella con cui ha respinto un ordine del giorno di minoranza che riconosceva la cittadinanza del “no” nel confronto referendario. Ma, se si deve credere alle voci del dibattito, tutto si può sostenere tranne che si sia manifestata l’unanimità dei consensi sull’operato del governo (e sulla condotta del partito). Sull’insieme dei nodi è preannunciata un’assemblea che si preannuncia vivace e che sarà conclusiva soltanto se la leadership non si limiterà a confermare che la linea seguita è quella giusta; e che dunque non vi sono correzioni da introdurre.
Brexit, non… Rexit
Forse è banale affermarlo, ma la chiave che apre la porta del riscatto è l’elaborazione di una linea politico-programmatica che qualifichi in modo visibile una ritrovata vocazione sociale del governo e gli consenta di farsi interlocutore “quotidiano” (è l’aggettivo più usato) dei bisogni e delle aspettative del popolo.
Il fatto che le minoranza del Pd si siano astenute dal chiedere – come sarebbe stato logico – la decapitazione del partito, significa con buona approssimazione che anche per esse l’esistenza di una “leadership forte” come quella di Renzi risponde meglio di altre alle esigenze del momento politico. È stato il tempo di Brexit, non è il tempo di… Rexit. Ma il segnale non è neutro: occorre un aggiustamento che non è, di per sé, di figure e di incarichi, ma di consistenza della linea politica: tale che gli elettori ne percepiscano la fisionomia e il senso.
Se si realizza questo requisito anche la doppia funzione del leader – al governo e al partito – è davvero un valore aggiunto. Diversamente non lo è.