Siamo nel guado: la crisi in cui siamo impantanati è di una gravità imparagonabile. Al cospetto dei mali e dei pericoli che ci minacciano siamo disorientati. Il pensiero filosofico ha individuato nel “nichilismo” la causa essenziale di questa condizione d’incertezza e di precarietà: nella parola “nichilismo” si riassume, come in una cifra luciferina, l’intera crisi della cultura contemporanea. Il nichilismo è il sintomo ultimo e più radicale di una “critica della civiltà”, che cova dall’inizio del secolo.
Il nichilismo sembra una sfinge indecifrabile, che però si esprime in diverse forme, si fa riconoscere dalle diverse “maschere” che indossa e si fa individuare in diversi ambiti dell’esperienza umana, non escluso quello artistico. In una parola, il nichilismo ha marcato a fuoco non solo la filosofia contemporanea, ma la cultura in generale, considerata nella sua lunga e articolata storia, oltre che nella sua espressione molteplice. Del resto, con questa valenza ampiamente distruttiva lo intende Nietzsche, il primo grande profeta e teorico del nichilismo, che in un frammento scritto in uno degli ultimi anni di lucidità afferma: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano» (VIII, II, 12).
Da cristiani di fronte ai “figli del nulla”
L’acre profezia del più caustico pensatore della modernità aveva previsto una profonda collisione delle coscienze e un cataclisma dello spirito senza pari: «la piena nichilistica si ebbe soprattutto quando le influenze del pensiero nietzscheano confluirono con gli esiti relativistici dello storicismo» (F. Volpi). G. Reale ne conta almeno dieci:
1) lo scientismo e la riduzione della ragione dell’uomo a una ragione calcolante;
2) l’enfasi delle ideologie e la dimenticanza dell’ideale del vero;
3) l’esaltazione dell’azione per l’azione e l’oblio dell’ideale della contemplazione;
4) la proclamazione del benessere materiale come surrogato della felicità;
5) il dilagare della violenza;
6) lo smarrimento del senso della forma;
7) la riduzione dell’Eros alla dimensione del fisico e la dimenticanza della platonica “scala d’amore” (e del vero amore);
8) la riduzione dell’uomo a una sola dimensione e l’individualismo portato all’eccesso;
9) lo smarrimento del senso del cosmo e dello scopo di tutte le cose;
10) il materialismo in tutte le sue varie forme e il connesso oblio dell’essere.
Il nichilismo preoccupa il cristianesimo – infaticabile ricercatore e ardito profeta del senso – proprio perché è il rotolamento verso il non-senso. Il cristianesimo, però, non può solo preoccuparsi, ma è chiamato a contribuire, dal suo punto di vista, a indicare uscite di sicurezza dal labirinto nichilistico: ne conosce, infatti, più d’una.
Il cristianesimo anche oggi è possibile. Il nichilismo non è del tutto indisponibile all’annuncio di Dio. Sta agli annunciatori del Vangelo saper integrare questa paradossale “spiritualità” e portarla a maturità, sapendo partire dalla propedeutica del nulla per iniziare da essa il santo racconto della storia salvifica, la cui prima parola è l’ex nihilo pronunciato dal Creatore, per proseguire con l’annichilimento della croce, per finire con i racconti degli Atti dei martiri della chiesa che, dall’incontro dell’«uno della Trinità», il Cristo, ha tratto motivazione per la sua complessa missione nel mondo.
Luci cristiane nella “notte” post-moderna
Lo storico olandese Johan Huizinga pubblicava, alle porte della seconda guerra mondiale, un famoso libro, il cui titolo evoca bene la crisi di civiltà in cui l’Occidente è caduto: Nelle ombre del domani.[1]
Huizinga inizia il suo libro citando un’espressione di Bernardo di Chiaravalle valida ancora oggi, nel particolare tornante storico del post-moderno: «Ogni epoca ha le sue notti e le notti del nostro tempo non sono poche» (Habet mundus iste noctes suas et non paucas).[2] La stessa scienza, figlia maggiore della modernità, pronostica l’oscuramento dell’orizzonte della modernità.[3]
Allo spaurito mondo moderno il cristiano testimonia la fede nella speranza, che travalica l’interiorità per espandere la sua presenza nella terra del tramonto:[4] da questa fede-speranza scaturisce l’attenzione per tutte le potenzialità creaturali presenti nell’uomo, che non sono integrate, né integrabili, neppure nel suo attuale modo di essere.
Il cristiano, anche fra le ombre diffuse e crescenti della terra del tramonto, crede e spera che l’homme depasse l’homme, che l’uomo ha ancora inespresse o emarginate potenzialità e che la transizione, unica alternativa alla catastrofe, non può essere il semplice prodotto dei processi storici in atto, ma invoca un supplemento di libertà creativa, sorretta dal principio-speranza.
Lasciati a se stessi o semplicemente assecondati, con quell’etica della rassegnazione che è il loro aroma religioso, tali processi storici finiranno per portare ad esiti di distruzione.[5] La speranza cristiana, fra l’altro, si presenta oggi come un appello che chiede di avere pietà dell’ora storica che stiamo vivendo e di salvarla. Nulla si oppone di più a questo appello escatologico che la dissoluzione dell’identità dell’uomo moderno che porti ad un rassegnato e magari soddisfatto ripiegamento sull’esistente e sul presente.[6] La speranza cristiana non è solo appello ad aver pietà del proprio tempo, ma impone anche la pazienza di discernere la complessità del mondo attuale: in esso si trovano «accostati e talvolta profondamente aggrovigliati tra loro il male e il bene, l’ingiustizia e la giustizia, l’angoscia e la speranza».[7]
Anche il nostro tempo ha le sue virtù
Dopo aver molto insistito sugli elementi di crisi della cultura nichilistica e post-moderna, è necessario almeno far cenno sui segni di bene, giustizia e speranza in essa presenti:
– Una “nuova sensibilità”. Nell’odierna “società complessa” si può scorgere la nascita di un nuovo sentire che porta a un modo di pensare più flessibile, attento alle differenze, all’analogia e alla gradualità. Si tratta di una sensibilità che si ribella agli schemi rigidi delle struttura economiche, sociali e politiche, e vuole il contatto con la vita reale e il rispetto di ogni persona umana. In quest’ottica sono sorte diverse e molteplici forme di solidarietà e di volontariato, mentre è venuta crescendo la consapevolezza del valore della persona, della famiglia, della vita, dell’esperienza religiosa.[8]
– Un risveglio religioso. È percepibile un diffuso risveglio religioso: c’è un risorgere della religiosità dell’ex Unione Sovietica e in altri paesi europei. Si è chiarita e, in certa misura, ha trovato uno sbocco positivo la profonda nostalgia della dignità della persona e dei suoi bisogni spirituali che da tanto tempo lievitava nell’anima dei giovani di quei paesi. Nei paesi occidentali, con modalità e ritmi differenti, si è fatta ugualmente sentire la nuova attenzione al sacro e verso certi valori trascendenti, anche se rischia di attestarsi a un livello solo sentimentale e protestatario nei confronti del riduzionismo scientista, del materialismo asfissiante e del freddo tecnocratismo che non rendono conto delle esigenze di un umanesimo completo o a più dimensioni.[9]
– Una rinnovata attenzione alle evidenze etiche. La messa in parentesi della preoccupazione etica rispetto ad alcune importanti attività umane (politica, economia, scienza) appare ormai pretesa insostenibile e vezzo pericoloso. «Un altro elemento positivo caratteristico della presente situazione culturale che può portare all’incontro con Dio è il bisogno molto diffuso di un’etica. I problemi sociali, economici, ecologici e soprattutto quelli collegati con la medicina sono fonte di preoccupazione e angoscia, perché mancano i fondamenti per risolverli. Purtroppo, le verità etiche vengono cercate semplicemente in modo consensuale, quando in realtà si trovano soltanto con un uso della razionalità adeguato al reale, con l’intellezione dell’uomo, del mondo e di Dio. L’etica non si sostiene senza il fondamento metafisico e senza l’approfondimento sulla libertà umana».[10]
Conoscere e servire il proprio tempo
Non si fa vera pastorale senza lasciarsi animare dal principio-speranza, ma non si fa pastorale nemmeno senza conoscere il proprio tempo nelle sue luci e nelle sue ombre. Il nostro tempo va capito di più dai pastori di anime: non è tempo sottratto alla missione quello che viene dedicato alla comprensione del tempo in cui Dio ci ha chiamati a servire il Vangelo.
C’è un a priori di fede che vale per la scrittura di ogni argomento centrale della teologia, e dunque anche di quella mariale, che tutti i tempi sono adatti al Vangelo, che anche il nostro tempo lo è. E in più: non c’è da saltare nessuna pagina difficile di esso, mai: anche Dio, in ogni epoca, ci fa aprire il Vangelo alle pagine più adatte al passaggio storico che si sta compiendo. E ancora: nessuna vera questione teologica (e questa nostra lo è) è disadatta nell’accidentato scorrere della storia.
[1] Quest’opera comparve nell’edizione italiana col titolo: La crisi della civiltà (1937), Torino 1978.
[2] Ibid., p. 3.
[3]Stephen Toumlin, uno dei più noti filosofi della scienza di questi anni, nella sua propensione, forse eccessiva, a stabilire le date anche dei processi dello spirito, fissa nel 1970 «l’inizio di questo offuscamento dell’orizzonte della storia, ormai “avvolto in nebbie e oscurità”» (S. Toumlin, Cosmopolis, Rizzoli, Milano 1991, p. 13). Se per Toumlin la fine del mondo moderno coincide con la fine dell’egemonia dell’uomo europeo, per il grande antropologo Donald Johanson si configura, più radicalmente, come una probabile scomparsa dell’homo sapiens: «L’intelligenza, quella scintilla fra milioni di altre specializzazioni che hanno costellato l’albero della vita, si è rivelata semplicemente questo: una luce che si accende e si spegne. Quando è venuto il momento della grande sfida – o cambiare o estinguersi – essa è scomparsa» (M. Edey – D. Joahnson, Sulle tracce dell’uomo, Milano 1990, p. 425).
[4] Cf. L. Colletti, Fine della filosofia e altri saggi, Ideazione, Roma 1996.
[5] Cf. Ibid., pp. 19-20.
[6] Cf. Ibid., p. 20.
[7] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Christifideles laici (30.12.1988), n. 3.
[8] Cf. A. Llano, La nuova sensibilità, Ares, Milano 1995. Cf anche L. Clavell, Metafisica e libertà, Armando, Roma 1996, p. 54.
[9] Cf. Ibid., pp. 13-21; 41-48.
[10] Ibid., p. 47.