Una volta, durante la messa, è accaduto un fatto singolare. Il mio piccolino che nulla sapeva, ha visto me e mio marito tracciare col pollice della mano destra il segno della croce su fronte, labbra e cuore. Ci ha guardato incuriosito, dopodiché con estrema determinazione ha preso con le sue manine la mano del papà e l’ha portata sulla sua fronte, dicendo: “anche a me!”. La sua voce non ha ammesso opposizioni. Mio marito gli ha tracciato i tre segni. Ho osservato la scena di lato.
Ma presto sono stata coinvolta. Subito dopo ha infatti aggiunto: “anche tu!”, stirando la mia mano. Mi è sovvenuto d’improvviso il ricordo della benedizione fisicamente ottenuta da Giacobbe con la lotta (Genesi 32,27). Mi sono chiesta allora se la religiosità e la fiducia dei miei figli mi avrebbe fatto capire meglio qualche altro passo della bibbia. E soprattutto ho pensato a che cosa voglia mai dire educare alla fede: a chi educa e a chi sia educato.
L’educazione religiosa dei figli
Appartengo alla generazione di genitori a cui la teologia pastorale ha dedicato parecchi studi. Facciamo una vita di corsa. Siamo spesso assenti. Dedichiamo poca attenzione alla dimensione “religiosa” dei nostri figli che, così, ne risulterebbe soffocata. Mi pare che gli studi dicano questo. Sono osservazioni giuste. In veste di catechista – prima di essere madre – ho accompagnato tanti bambini e ho potuto osservare in quale modo riflettessero la vita delle loro famiglie. Ho conosciuto spesso bambini che, pur abituati a dire le preghiere a casa, sembravano risultare indifferenti, scontrosi o semplicemente disorientati durante gli incontri.
Ora penso che quel che chiamiamo fede, anche nei bimbi, possa essere trasmesso solo da un contesto di fascinazione e di affetto per la figura molto umana e familiare di Gesù.
Da madre, mi sto ripensando come laureata in teologia. Mi sono convinta che il bambino abbia un senso della fede assolutamente spontaneo. L’esperienza di madre – una madre che qui vuole restare nell’anonimato – mi insegna insieme agli studi e più dei miei studi.
L’ascolto e la narrazione
Raccontando altre piccole scene di semplice vita famigliare, vorrei trasmettere questo senso di fiducia ad altri genitori.
“Se non diventerete come bambini…”: questo detto di Gesù risuona nella mia testa ogni volta che osservo attentamente i miei figli in età prescolare. Per la mia piccolina, i soggetti della fede sono tanto reali quanto reali sono i membri della famiglia. Una volta, dopo un piccolo incidente avvenuto in gioco, per calmare il suo pianto, l’ho portata nella nostra camera da letto. Un piccolo oggetto ha attirato la sua attenzione: era un’icona da viaggio, chiusa come un libro. Ha voluto che l’aprissi.
Ha scoperto l’immagine della Madonna Odigitria (colei che guida). Mi ha chiesto: “Chi è?”. Ovviamente ho risposto: “la Mamma col suo bambino Gesù in braccio”. La voce della mia bimba era calma, ma subito si è fatta animata. Col suo piccolo dito ha toccato la testa di Gesù bambino, dicendo: “anche lui si è fatto male!?”.
I bimbi sorprendono con le loro domande di “fede”. Un’altra volta, osservando l’icona della croce, mio figlio ha voluto toccare i segni dei chiodi. E’ stato lui a dirmi a che cosa erano serviti quei chiodi. Quando ha avuto la mia conferma, ho letto nei suoi occhi un’ombra di terrore. Ho cercato di spiegare che Gesù non è rimasto così sulla croce, ma che dopo poco è stato risuscitato. Ha accolto la mia rassicurazione materna con un evidente sollievo.
I piccoli catechisti
I miei figli sono diventati per me catechisti. Mi aiutano nella relazione con un Dio che è Padre. Mi chiedono l’impossibile con l’assoluta certezza di essere accontentati. Mi danno la giusta percezione della onnipotenza di Dio che è totale potenza nella fiducia dell’affetto. Penso che anche il Padre si commuova – come io mi commuovo coi miei figli – nel vedere tanta sconfinata fiducia in Lui.
Penso alla dichiarazione dell’amore paterno racchiusa nelle parole: “Questo è il mio diletto Figlio nel quale mi sono compiaciuto” (Luca 3,22). Ogni genitore può dire di provare comunque compiacimento nei propri figli. Io mi compiaccio vedendoli crescere e ragionare; mi compiaccio quando riescono nelle loro piccole imprese, ma mi compiaccio pure quando goffamente combinano piccoli disastri.
Mi insegnano qualcosa di Dio anche quando, con dispiacere, noto che stanno sbagliando, perché cercano di fare senza di me, nel tentativo di emanciparsi da me. Penso di cogliere qualcosa di più della fede eucaristica persino quando si ostinano a dire “mio, mio” sulle cose che chiaramente appartengono a me, perché in qualche modo comprendono che ciò che abbiamo in famiglia è certamente anche loro.
Una sera mio figlio ha voluto baciare l’immagine di Gesù nella scena della crocifissione, quella con Maria e Giovanni a piedi della croce. “voglio baciare anche la mamma e anche il papà di Gesù”, ha detto. “Ma il papà è Dio e qui non si vede”: ho reagito io, immediatamente, da adulta. “E lui, chi è?”: mi ha detto indicando la figura di Giovanni. “È il discepolo di Gesù, uno che lo segue e che lo ascolta”. “Voglio anch’io!”: mi ha risposto d’acchito. Probabilmente voleva soltanto trovare la terza figura a cui dare un bacio sull’icona. Mentre stava andando verso il suo letto a dormire, gli ho fatto una domanda divertita: “vuoi essere dunque anche tu discepolo di Gesù?”. Si è grattato il collo mentre con aria distratta ha passato in rassegna con lo sguardo tutti i suoi meravigliosi giocattoli. Ha quindi sbottato: “sì”.
Non so ovviamente quale significato attribuire al suo “sì” e tuttavia sento di poter pregare, per tutto questo, con le umane e divine parole di Gesù: “Ti benedico, o Padre, Signore dei cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11,25).
Se sapessimo sempre leggere ed ascoltare nella vita dei nostri bambini quello che ci insegnano! Aggiungo un piccolo episodio capitato a mons. Tonino Bello, santo vescovo di Molfetta. Mentre distribuiva la Comunione, si accostò un papà, col suo bimbetto in braccio: quando ricevette l’ostia il bimbo gli domandò:”È buona,papà?” Mons. Tonino rimase bloccato per alcuni secondi, poi consegnò la pisside ad un accolito e raggiunse quel papà, abbracciò il bambino, ringraziandolo. Più tardi, disse: “è stata una delle più belle lezioni sull’Eucarestia che io abbia mai ricevuto”.
Sì, i piccoli educano alla fede. Il fatto “singolare” che l’ha così tanto sorpresa è ulteriore conferma di quanto più di 60 anni fa avevano cominciato a comprendere Sofia Cavalletti e Gianna Gobbi, quando iniziarono l’avventura di quella particolare modalità di catechesi che si chiama “catechesi del buon Pastore”. Una modalità che rapidamente si è andata diffondendo sia geograficamente – è ormai estesa nei cinque continenti – sia ecumenicamente. Una catechesi che inizia con bambini di due-tre anni e si va sviluppando fino all’adolescenza, sempre e soltanto avendo come fonti la Bibbia e la Liturgia, fonti che consentono di vivere la fede come relazione personale con Dio, nell’amore e nella gioia. È assai ben descritta dalla stessa Cavalletti nei suoi due libri: “Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un’esperienza con bambini da 3 a 6 anni”, e “Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di una esperienza”, entrambi editi da Città Nuova, e ne tratta anche il volume “Sofia Cavalletti. La catechesi del buon Pastore. Antologia”, ed. Dehoniane, Bologna 2015. Si può vedere anche il mio contributo: “L’iniziazione cristiana fatta con gioia: la catechesi del Buon Pastore”, in “Parola Spirito e Vita” 76, ed. Dehoniane, Bologna 2017, pp. 167-177.