Un sospiro di sollievo di molti credenti ha accompagnato il comunicato del monastero di Bose che annuncia l’avvio della soluzione del contenzioso comunitario. «All’indomani della solennità di Pentecoste (1° giugno), la comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica.
A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato dalle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorelle della comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità». Rimane l’appartenenza comunitaria, cambia il luogo e quindi gli interessati decadono da tutti gli incarichi attualmente detenuti. Si sono avviati i dialoghi per stabilire il dove e il come di questa permanenza fuori comunità.
Ragioni e tensioni
Si scioglie in questo modo il rifiuto che fr. Bianchi, assieme a Boselli e Casiraghi, avevano opposto al decreto e si avvia a soluzione la tensione comunitaria. Secondo alcune cronache giornalistiche, aveva chiesto la sospensione del provvedimento. L’allontanamento si intuisce essere temporaneo in conformità a quanto il fondatore scriveva nel 1985: «Noi non potremo mai mandar via o escludere dalla comunità un fratello, così come nessuno potrà dire di non appartenere più ad essa».
Nei giorni scorsi annotava: «Ho sofferto di non poter più dare il mio legittimo contributo come fondatore. In quanto fondatore, oltre tre anni fa ho dato liberamente le dimissioni da priore, ma comprendo che la mia presenza possa essere stata un problema. Mai però ho contestato con parole e fatti l’autorità del legittimo priore, Luciano Manicardi, un mio collaboratore stretto per più di vent’anni, quale maestro dei novizi e vicepriore della comunità. che ha condiviso con me in piena comunione decisioni e responsabilità».
Nel 1998 aveva scritto che una fondazione ha forza profetica per i primi 50 anni, poi subentra una crisi: «Bose potrebbe anche finire». Quattro anni prima era stato anche più esplicito: «La Chiesa normalmente “cattura” la comunità religiosa nella seconda generazione» ed essa perde il contatto con il mondo e diventa elemento significativo nel sistema istituzionale. Una lettura esplicitamente sociologica e difficile da applicare frettolosamente con quanto sta succedendo.
La reazione della comunità è intuibile nell’omelia del priore per la festa della Pentecoste, quindi prima della decisione dei “resistenti”. Commentando Gv 20,20-22 egli diceva: «Questa comunità [dei discepoli] che, come sempre ogni comunità, è una povera comunità che vive una comunione ferita, che ha conosciuto lacerazioni, impara dal Crocifisso risorto che le ferite possono divenire le feritoie attraverso cui passa il dono vivificante, il dono dell’amore. Il corpo ferito e risorto di Gesù è, per i discepoli, memoria della storia d’amore vissuta insieme, è attualizzazione di tale storia non interrotta dalla morte, ed è donazione di futuro per continuare una storia di amore (Gesù dona loro lo Spirito). Proprio come lo è l’eucaristia».
E aggiunge: «Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti». «Tuttavia il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso».
Le molte voci esterne
La sostanza della tensione comunitaria è quella espressa nel comunicato del monastero del 26 maggio: «Come da noi annunciato a suo tempo, in seguito a serie preoccupazioni pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno» il santo padre ha disposto la visita canonica (cf. SettimanaNews).
Fra i numerosi commenti raccolti in queste giornate ne sottolineo alcuni come emblematici. Il primo, della pastora evangelica Lidia Maggi, interpreta l’affetto e la vicinanza di molti: «La comunità di Bose non ha rappresentato per me l’incontro con l’esotico (con quella dimensione monastica che le Chiese della riforma hanno per lo più espulso dal loro orizzonte) o con una risorsa utile per coltivare lo spirito ecumenico. Più radicalmente, la forma della fede vissuta a Bose mi ha interpellata nella mia identità più profonda, a proposito di quel marcatore identitario che caratterizza il cristianesimo riformato, ovvero la centralità della Parola». E conclude: «Per tutto questo sento Bose come parte del mio corpo. Per questo la sua ferita è la mia».
Approcci marcatamente critici verso i provvedimenti vaticani e poco rispettosi verso i fratelli e le sorelle della Comunità sono invece quelli di G. Ruggieri e A. Melloni. Il primo scrive: «Hanno ucciso il padre mediante interposta persona… Enzo è il fondatore, quella è una sua creatura. È impossibile pensare Bose senza Bianchi». Melloni parla ironicamente di «reato di caratteraccio» e di «faida vaticana contro Francesco». Un’operazione «che infilza l’anomalia di Bose, il priore, l’ex priore, il mancato priore, l’ecumenismo, la terza loggia vaticana, i vescovi italiani, un lembo della tonaca del papa».
Tutt’altra lettura e un invito all’obbedienza sono invece presenti nelle parole di Raniero La Valle e di p. Bartolomeo Sorge. La Valle afferma che «non c’è nessuna intenzione punitiva o di repressione nei confronti di Bose. Papa Francesco ha sempre apprezzato il cammino intrapreso dalla comunità piemontese. Se si è resa necessaria una decisione come quella che ci ha addolorato evidentemente non è per porre fine o stroncare questo carisma, ma per difenderlo, preservarlo e farlo crescere». Per Sorge: «A questo punto Enzo Bianchi deve accettare con amore la sofferenza della prova. La ribellione e la resistenza sarebbero un errore fatale perché in questi casi si accetta la croce anche senza capirne le ragioni».
Tradizione pre-benedettina
Mentre si avvia a soluzione il contenzioso, la comunità viene confermata nel suo cammino e nella sua identità, voluta dal fondatore, ma è anche resa possibile un’evoluzione. Fra i molti indirizzi, accenno a due soli elementi: l’identità monastica e il tema dell’obbedienza. Bose canonicamente è un’associazione privata di fedeli, non è censita nell’Ordo monasticum. Con genialità si è imposta per quello che è. Si è sempre considerata tuttavia comunità monastica e i suoi membri sono monaci e monache. La presentazione a Bose del decreto è avvenuta con la presenza di mons. Carballo, segretario del dicastero dei religiosi.
Questo fa presumere un cammino di riconoscimento formale, che non richiede di per sé la rinuncia a nessuna delle particolarità di Bose: dalla liturgia, al “doppio monastero”, dalla Regola alla dimensione ecumenica. Se così fosse, la corrente monastica occidentale e benedettina sarebbe arricchita dal flusso delle memorie basiliane e del monachesimo pre-benedettino. Fra le sue caratteristiche si può ricordare: la centralità e la signoria della Scrittura, l’unicità della vocazione cristiana, la dimensione non clericale, la preminenza del binomio celibato-vita comune rispetto al trinomio dei voti (povertà, castità, obbedienza).
A Bose l’obbedienza è verso la comunità piuttosto che verso il priore. Anche questo è un portato della tradizione basiliana che affida al responsabile un compito di amalgama e di fedeltà al Vangelo piuttosto che un profilo di autorità vincolante. L’autorità è occasione di obbedienza a Dio. «Credo che la cosa più faticosa sia proprio l’obbedienza – ha scritto Bianchi nel 1997 – per come noi la pratichiamo a Bose, come la pensiamo. Non è tanto obbedienza ai superiori quanto obbedienza come sottomissione reciproca». Coerentemente si sono sviluppati gli organismi del priore, del consiglio della comunità (i monaci e le monache che hanno fatto professione monastica), del «discretorio» (una struttura più snella per i casi personali), del capitolo (tutti quelli accolti liturgicamente in comunità) e dell’assemblea (tutti quelli che hanno ricevuto l’abito). I fatti recenti mostrano che un affinamento del tema è possibile e prezioso.
Le indicazioni del decreto della Santa Sede, l’indirizzo largamente prevalente della comunità e il gesto di obbedienza del fondatore convergono nel dare futuro a una comunità che è monastica, formata da cristiani, chiamati a vivere radicalmente l’Evangelo nella vita comune e nel celibato. Comunità mista (uomini e donne) e interconfessionale. Un dono prezioso per la Chiesa italiana. E non solo.
Se questa è comunità? Bell’esempio
I panni sporchi si lavano in casa
Poi la ragione non interessa
Proprio un dono prezioso!
Saluti