Spesso, anche nella Chiesa, le idee innovative vengono proposte con una certa impazienza. Il modello cui ispirarsi, invece, è la pazienza di Dio.
La riforma della Chiesa richiede molte idee e coraggio, dal momento che si tratta di realizzare delle trasformazioni nella progettualità e nella prassi di comunità cristiane che hanno normalmente convinzioni e consuetudini ben consolidate. A volte, però, questo coraggio può trasformarsi in pretesa di cambiare le cose a qualunque costo.
Può succedere, infatti, che ci si convinca della correttezza di determinate idee – magari effettivamente condivise all’interno di una cerchia di studiosi – al punto da cercare di imporle in modo perentorio nel dibattito ecclesiale come conclusioni ovvie che non possono più essere disattese.
In realtà, nelle questioni teologiche un singolo fedele, e persino una comunità di specialisti, possono prendere un abbaglio, dal momento che nelle cose di Dio la competenza e la riflessione, se disgiunte da un atteggiamento di umiltà e da una forte vita spirituale, possono portare fuori strada. Questo avviene, ad esempio, quando si comincia a giudicare la fede ecclesiale a partire dalle esigenze della cultura in cui si vive, magari per non essere emarginati nel dibattito pubblico.
Al di là di questo, occorre prendere atto che nella Chiesa le visioni innovative si attuano solo gradualmente e, normalmente, in modi diversi da quelli immaginati da coloro che le hanno concepite. In termini ecclesiologici, si tratta del processo della recezione, attraverso cui una comunità cristiana fa proprio un bene spirituale, come ad esempio una prospettiva teologico-pastorale originale, accogliendolo però in modo creativo, cioè a partire dai propri carismi e dalla situazione concreta in cui si trova, e in tempi lunghi. Vi è quindi un legittimo indugiare delle comunità cristiane o dell’intera Chiesa, che mette alla prova ogni fedele che riflette, soprattutto i teologi, che talora possono avere l’impressione di lavorare a vuoto.
La pazienza di Dio
A mio giudizio, però, esiste un altro indugiare che è molto più difficile da accettare. Si tratta dell’indugiare di Dio. Proprio a quest’aspetto sorprendente fa riferimento il padre Congar in un passaggio molto importante della sua opera Vera e falsa riforma nella Chiesa: «L’innovatore, la cui riforma diventa scismatica, manca di pazienza; egli non rispetta gli indugi di Dio e della Chiesa, le dilazioni della vita. Con una specie di logica rigida ed esasperata tende verso le soluzioni del “tutto o niente” nelle quali gli elementi validi sono condannati insieme agli altri.
Poco ci manca che intìmi alla Chiesa di soddisfare le sue rivendicazioni – e subito – sotto la minaccia di lasciarla. L’eresiarca non è capace di aspettare che un’idea maturi; egli non esita a lanciare subito la sua idea e a trarne in maniera rigida le sue conseguenze. Facendo questo, non solamente rischia di sbagliare strada, ma di togliere ad altri le possibilità di cambiamento che potevano presentarsi». (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1994, 233).
Se, in linea di principio, è comprensibile che idee innovative trovino accoglienza solo attraverso molti indugi da parte delle comunità, non è così ovvio che questo stile caratterizzi anche il modo in cui Dio interagisce con la sua Chiesa. Ovviamente egli non è indeciso su ciò che si aspetta da essa nel tempo presente, ma rivela tale sua volontà in modo parziale e graduale, e questo dal nostro punto di vista assume i tratti di un indugiare. Occorre quindi adottare uno stile di pazienza che accetta di non capire tutto e subito, una pazienza che in fondo è figlia della fede, cioè di quel fidarsi di Dio che ha nell’abbandono del Figlio incarnato nelle mani del Padre il suo modello e la sua condizione di possibilità.
Custodire il Vangelo
Queste riflessioni possono servire per realizzare la riforma della Chiesa anche nel tempo di pandemia che stiamo vivendo. Non è detto che Dio ci dica ora e in modo conclusivo che cosa dobbiamo fare di nuovo per far fronte alle esigenze pastorali che si stanno profilando.
Forse ci sta educando proprio con il suo indugiare, lasciandoci un po’ disorientati, per renderci più umili e quindi più capaci di comprendere in seguito la sua volontà. Nel frattempo, anziché preoccuparsi di quello che Dio ci dirà, dobbiamo custodire ciò che ci ha già detto nel suo Figlio, cioè il Vangelo. È questa la cosa più importante, anche nel momento presente.
In effetti, la prima preoccupazione delle comunità cristiane primitive, pure provate da malattie e violenze inimmaginabili, è rimasta quella di custodire autenticamente il Vangelo trasmesso dagli Apostoli. Questo ci insegna che, anche in situazioni di grandi difficoltà, la Chiesa deve anzitutto chiedersi se stia custodendo la verità dell’esperienza cristiana, o se la stia distorcendo nelle parole e nella prassi, non ovviamente nelle prese di posizione ufficiali, ma nella pastorale ordinaria.
A questo riguardo, non condivido l’opinione di chi pensa che il futuro della Chiesa passerà primariamente attraverso l’attenzione agli ultimi. Sono convinto, ovviamente, che il problema fondamentale della comunità internazionale sia quello di riscoprire una relazione paritaria tra esseri umani, popolazioni e culture, dal momento che l’umanità può crescere solo tutta insieme e le logiche di prevaricazione finiscono sempre per essere distruttive anche per chi le pratica.
Non mi pare questo, però, il problema fondamentale per la Chiesa che verrà, bensì – come è stato all’inizio – quello di non distorcere il Vangelo, ma di custodirlo e annunciarlo nella sua autenticità. E il Vangelo non si riduce affatto all’amore per i poveri. Se noi cristiani non possiamo che stare dalla loro parte, vedendo in essi il volto del Signore, non c’è bisogno di avere fede in lui per vivere la logica della solidarietà nei confronti dei bisognosi.
Mi sembra invece che il grande pericolo per la Chiesa, anche in tempo di pandemia, sia la presunzione di avere già capito il Vangelo e di trasmetterlo adeguatamente nella prassi pastorale ordinaria. Dovremmo ripartire di qui, anche per affrontare le nuove sfide dell’evangelizzazione e la sete di salvezza che l’esperienza drammatica della fragilità umana avrà auspicabilmente risvegliato.
Affermare che Dio indugi mi sembra un poco bizzarro, affermare che nella nostra percezione Dio ci appaia indugiare è altra questione. A proposito di umiltà non mi sembra che possiamo essere così certi che Dio indugi, per buona pace del venerabile e apprezzabile teologo e del professore.
L’umiltà a cui però il professore fa riferimento è senza dubbio importante, nasce dalla consapevolezza di non sapere e di non potere tutto.
D’altra parte a me pare -umilmente lo dico – che sia proprio la mancanza di un effettivo e reale amore ai poveri all’interno della Chiesa, nella sua struttura istituzionale e pastorale che toglie a tutti la possibilità di dire che effettivamente abbiamo capito tutto del Vangelo…
Ero ormai assegnato a leggere libri ed articoli nei quali si intimava l’attuazione di riforme che parevano agli stessi autori indispensabili per salvare la chiesa ed essere oggi accettati . Quasi un meanstream teologico.
Il professor Nardello con ottimi argomenti ci riporta invece in un contesto caratterizzato dal sensus ecclesiae e chiedendo quindi a tutti un pò di umiltà.
Importante anche il richiamo alla necessità di custodire il Vangelo .
Grazie professore